Fissando l'abisso. Recensione di Storia e destino
Autore: Francesco Boco
da: Divenire 1, Libreria () | pdf | stampa
Aldo Schiavone,
Storia e destino,
Einaudi,
Torino 2007, pp. 108.
Il saggio dello Schiavone dimostra in modo lampante come non siano necessarie opere di dimensioni enciclopediche per dire in modo chiaro, efficace ed esaustivo ciò che si sostiene. L'autore concentra nelle quasi 100 pagine del suo Storia e destino un appello all'uomo affinché torni a essere padrone del suo tempo, non lasciandosi più scivolare addosso il presente, accettando in tutta la sua pericolosità la sfida del futuro, senza smarrire il rapporto col suo passato. «La rimozione del futuro, cancellato quanto più avremmo bisogno di pensarvi – l'autentico male che oscura e incupisce i nostri anni»
. Gli strumenti creati dalla nostra civiltà ci hanno condotti su un abisso di luce che ci inquieta e ci pone domande, la sfida più ardua che si prospetta è dunque quella di scegliere dove si vuole andare.
Il discorso deve prendere avvio dalle letture date dell'origine dell'universo nella Genesi e nel Timeo platonico. Nella prima, la lotta di Dio contro il caos per il raggiungimento di un ordine universale è in funzione della comparsa dell'uomo, per lui, affinché possa abitare il mondo, Dio da forma all'informe. Il sesto giorno compare l'uomo, ed esso viene fatto ad immagine e somiglianza di Dio. La violazione successiva dell'albero del bene e del male precipita l'uomo nella storia, separandolo dall'albero della vita e dell'immortalità, facendogli così conoscere la morte e il dolore. Nel Timeo è naturalmente assente la lacerazione che provoca la caduta nel tempo, ma il richiamo al mito del Demiurgo costruttore e padre dell'universo serve a segnare la fissità del mondo delle idee rispetto alla transitorietà del mondo sensibile.
In entrambi i casi, l'uomo è fatto essere storico. È poi evidente che entrambe i racconti siano decisamente antropocentrici, tanto che la creazione dell'universo è pensata in rapporto strettissimo con la presenza dell'uomo: «l'uomo – e lui soltanto – è nelle due rappresentazioni la misura di tutte le cose»
. Questa prospettiva venne messa fortemente in crisi dalla scienza moderna, che relativizza l'importanza dell'uomo stesso e indica la Terra non più come centro dell'universo, ma come uno tra i vari pianeti in moto attorno al sole. Dove la scienza aveva colpito il mito, oggi è la scienza stessa, attraverso le nuove tecnologie, a riconfermare una prospettiva molto simile, tanto che ora ci è possibile osservare fotografie che rappresentano i primi momenti della nascita dell'universo, tornando così ad avvicinarci al momento dell'origine stessa, «la nuova tecnica al posto della metafisica (e della scienza classica): ed ecco che l'uomo sembra riguadagnare di colpo le posizioni perdute»
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La prospettiva storico-temporale proposta dall'autore esce dai canoni convenzionali, non limitandosi a una visione lineare finalistica o progressista, ma aprendo invece a un discorso più complesso che non viene che accennato in alcuni punti chiave della trattazione. «Alle nostre spalle non c'è il percorso lineare di una ferrea e univoca necessità. Nulla di riducibile a una continuità ininterrotta»
. Niente di prestabilito, nessun procedere forzato verso il "meglio" inevitabile ed indiscutibile compaiono nella storia che ha condotto l'uomo fino agli attuali sviluppi tecnologici, ma una serie di scelte e di condizioni favorevoli al mantenimento e al proseguimento della vita umana sulla Terra. Il tempo profondo della vita (la Terra conta quattro miliardi e mezzo dalla sua origine) subì un'accelerazione notevole con la comparsa dell'uomo e dell'intelligenza: in quel momento la storia del pensiero e delle azioni uscì dai lunghi lassi temporali del passato per collocarsi su un altro piano temporale - solo oggi paiono riallacciarsi. La comparsa dell'homo erectus un milione di anni fa, fino all'homo sapiens sapiens circa trentamila anni fa, segna una tappa decisiva per la vita sulla Terra, scindendo i lunghi tempi della vita – il tempo profondo – dalla relativa rapidità dell'intelligenza e della tecnologia umane.
Se però si tende a scindere i piani temporali dalla comparsa della specie umana, non lo si dovrebbe fare secondo un'idea del 'meglio' contro il 'peggio', per cui il passato costituirebbe sempre un 'meno' rispetto al presente o al futuro, bensì in un'ottica che consideri la storia come il regno della possibilità, lo spazio temporale in cui si colloca una scelta che non è necessariamente la migliore, ma è una tra le varie possibili e diversa da queste. Il passato è dunque il luogo dell'alternativa: «la storia della vita avrebbe potuto prendere, in ognuno dei suoi punti critici, strade molto lontane, tali da condurre a esiti in nessun modo confrontabili con quelli odierni»
. L'uomo ha insomma realizzato uno dei cammini possibili fino ad oggi, e non è sicuro che questo sia stato il più rapido, il più semplice, il migliore. Scelte sbagliate avrebbero potuto condannare definitivamente la specie umana, altre avrebbero invece potuto evitarci taluni ostacoli; fatto è che le scelte operate ci hanno condotto fino alle attuali capacità del pensiero e della tecnica e questo è un problema che non può essere eluso. La vita è quindi strettamente legata alla storia, e la vita stessa è oggi, per le condizioni tecnologiche venutesi a creare nel tempo, l'argomento più scottante del secolo, poiché attorno ad essa s'intrecciano interessi di potere ed economici.
Con la comparsa dei neandertaliani, circa centomila anni fa, il tempo dell'intelligenza si contrae e ogni relazione con i tempi evolutivi salta. In un tempo relativamente breve compaiono i primi strumenti di pietra e legno; nei tempi a venire compaiono l'incastro, l'arco e il linguaggio, ma la prima vera rivoluzione tecnologica della storia si ha circa diecimila anni fa, nel tardo neolitico, con l'introduzione dell'agricoltura e della metallurgia. Fino alla seconda rivoluzione tecnologica, la rivoluzione industriale in Inghilterra, non vi furono nel frattempo dirompenti sviluppi tecnici e scientifici, ma piuttosto il grado tecnologico raggiunto aveva affrancato l'uomo dalle minacce esterne e gli aveva fornito gli strumenti utili alla sopravvivenza al punto che in questo lasso di tempo il pensiero poté svilupparsi liberamente secondo un tempo ancora differente da quello tecnico. La rivoluzione tecnologica del XVIII secolo, coi telai meccanici, le fabbriche e le macchine a vapore, impresse un'accelerazione temporale notevole, se si pensa ai secoli che la separano dalla prima e poi dalla terza, quella che noi stiamo iniziando a vivere. L'unione di capitale e tecnologie produsse una costante processo di sviluppo che contrasse la misurazione temporale in decenni, anticipando in qualche modo il ritmo attuale. «Il ritmo si moltiplica di anno in anno. A noi apparirà – sta già apparendo – non come una corsa, ma come un'esplosione: l'improvviso sfondarsi di una soglia»
. Stiamo entrando nella Singolarità, un cambiamento rivoluzionario così rapido e profondo che trasformerà radicalmente l'intera umanità.
Tempo della vita e tempo della tecnologia si ricongiungono, si giunge al punto in cui le basi naturali (se così ancora potremo considerarle) della nostra vita non saranno più immodificabili e affidate alla selezione naturale, ma saranno determinate storicamente dalle scelte dell'uomo. La crescita tecnologica appare, alla luce della storia irripetibile che è stata e dell'accumularsi di tanti fattori determinanti, la costante più potente della storia della nostra specie, la rivelazione di un destino non predeterminato, ma elaborato dalle scelte stesse dell'uomo. «L'espressione di una tendenza non più arrestabile in quel quadro»
. Se siamo arrivati sino a qui, insomma, non è propriamente un caso.
Una fondamentale distinzione nella storia dell'uomo è quella tra cultura e natura. Gli ordini e i valori si sono spesso basati su una presunta naturalità delle proprie leggi, e in essa trovavano la propria legittimità. Gli sviluppi della tecnologia hanno però sempre più ristretto il campo lasciato alla natura, accogliendo piuttosto tutto sotto la definizione di cultura. Solo l'elemento della vita, a cui si accennava più sopra, resta ancora insondato ed è oggi il più importante, il più discusso. Per la Chiesa la vita nei suoi inizi e nella sua fine è il polo su cui si gioca una dura lotta di potere: il controllo sulla vita - su ciò che è naturale e ciò che non lo è, dunque su cosa possa essere fatto e cosa no. Essa ha fino ad oggi avuto l'ultima parola in merito alla giustificazione di ogni biopolitica, ma le nuove possibilità tecnologiche anticipano un nuovo potere affidato all'uomo stesso e indipendente dal controllo religioso. «Ma se il divieto venisse meno, e l'uomo entrasse attraverso la tecnica a determinare, scegliere, intervenire, decidere, noi vedremmo una massa enorme di potere spostarsi e cambiare di segno»
. Di contro a una Chiesa che vuole tenere l'uomo in uno stadio di inferiorità eterodiretta allora bisognerà accettare tutti i rischi dell'uscita dall'infanzia per entrare nell'età adulta, praticare una nuova condizione e accettare il destino storico costruito sin qui. Forse solo in questo modo si potrà essere davvero "a sua immagine e somiglianza".
La rivoluzione informatica e biologica che si preannuncia porterà alla convergenza tra intelligenza umana e non biologica, in una dimensione non più "naturale", ma strettamente "culturale" dell'umano. In questo processo l'uomo si affrancherà dalla selezione naturale e dai limiti impostigli naturalmente, avendo raggiunto la capacità di intervenire direttamente sul patrimonio genetico. Si tratta del raggiungimento di uno stadio di maturazione culturale.
Dobbiamo ricordare qui che "cultura" non significa un qualcosa di completamente estraneo alla "natura", ma cultura è ciò che si produce da una scelta fatta tra le possibili messe a disposizione dalla natura stessa. Così destino e cultura si stringono nella scelta fatta dall'uomo. «L'alternativa che abbiamo di fronte, perciò, non prevede di rimanere fermi, stretti alla sacralità di un disegno rimasto finora intatto, ma si sviluppa tutta tra l'ipotesi di proseguire attraverso la somma di piccole correzioni relativamente marginali, lasciando ancora alla lotteria dell'evoluzione un compito determinante, e quella di assumersi la responsabilità di orientare l'intero processo, una volta che saremo in grado di farlo»
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L'entrata nella Singolarità porta con sé problematiche enormi e intricate, considerato anche il fatto che sin dagli inizi di questa rivo-luzione tecnologica si fatica ad affrontarla con chiarezza. Essa porta con sé la crisi della politica stessa e dell'etica, domandando quindi una soluzione a tali questioni fondamentali. Secondo il nostro autore l'unica possibilità è un graduale adeguamento alla nuova realtà attraverso una politica e una morale dell'uomo tecnologico.
La politica non è una forma eterna né tanto meno la democrazia: la tecnica, con la rete di poteri ad essa connessi, la sua capacità di decidere sulla vita, ha preso il posto della politica in ambito decisionale. «È lei che determina la qualità dei nostri bisogni e dei nostri desideri. La politica le arranca dietro, in affanno: non riesce a guidare una rivoluzione cui non sente di partecipare»
. Ma negli intrecci attuali tra mercato e tecnica è necessario un punto d'equilibrio che sappia dirigerli, e secondo lo Schiavone precisamente questo dovrebbe essere il ruolo della politica e di una nuova tecnodemocrazia. Una democrazia cioè che sappia adeguarsi alla forma globale e piatta – unificata dalle tecnologie – del mondo che si annuncia, basato su un ordine tecnologico globale, diffuso in ogni dove, ma in cui si possano ancora garantire le differenze. La rivoluzione della tecnica dovrà soprattutto poggiare su una nuova etica, capace di trovare il divino nell'accrescersi delle facoltà umane, che sappia accogliere quindi le responsabilità a cui il destino ci chiama, unendo al miglioramento della specie, il mantenimento – affidato a noi – dell'ecosistema e la pace.
Con procedimento circolare il libro si conclude com'era iniziato, richiamandosi alla Genesi e al Timeo. Ecco quindi che la rassomiglianza tra Dio e l'uomo viene interpretata dall'autore, con un colpo di scena notevole, non come un qualcosa di già dato, ma come un annuncio semmai, o meglio, come un progetto. «La rassomiglianza riguarderebbe perciò il compimento del nostro futuro. Somigliare a Dio non sarebbe insomma per l'uomo la condizione di partenza, ma la stazione d'arrivo, da un certo momento in poi da noi stessi voluta e guadagnata»
. Qui il libro ha un'impennata fortemente provocatoria, da un uomo che supera se stesso in modo simile al superuomo nietzscheano, si giunge infine all'espressione più potente e rischiosa della raggiunta maturità, l'aver cioè trascinato la forza creatrice dell'infinito nel finito e limitato, cioè nel nostro tempo. E se ciò che qui si prevede ad un tempo ci affascina e ci inquieta, ci esalta e ci angoscia, dobbiamo comunque tenere presenti le parole di Hölderlin: «Nel pericolo cresce anche ciò che salva»
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