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Divenire

Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e sul postumano

LA RIVISTA

Presentazione

Divenire è il titolo di una serie di volumi incentrati sull'interazione tra lo sviluppo vertiginoso della tecnica e l'evoluzione biologica dell'uomo e delle altre specie, ovvero votati allo studio dei rapporti tra la tecnosfera e la biosfera. Gli autori, provenienti da diverse aree disciplinari e orientamenti ideologici, sviluppano la propria analisi con occhio attento al probabile esito finale di queste mutazioni casuali o pianificate: il postumano. Sono dunque studi che sul piano temporale spaziano nel presente, nel passato e nel futuro, mentre sul piano della prospettiva disciplinare sono aperti a idee e metodi provenienti da diverse aree di ricerca, che vanno dalle scienze sociali alle scienze naturali, dalla filosofia all'ingegneria, dal diritto alla critica letteraria.

Ogni volume ha quattro sezioni. In Attualità compaiono studi attinenti a problematiche metatecniche del presente. Genealogia è dedicata a studi storici sui precursori delle attuali tendenze transumanistiche, futuristiche, prometeiche — dunque al passato della metatecnica. In Futurologia trovano spazio esplorazioni ipotetiche del futuro, da parte di futurologi e scrittori di fantascienza. Libreria è dedicata ad analisi critiche di libri su tecnoscienza, postumano, transumanesimo.
I volumi pubblicati finora (ora tutti leggibili in questo sito):

  1. D1. Bioetica e tecnica
  2. D2. Transumanismo e società
  3. D3. Speciale futurismo
  4. D4. Il superamento dell'umanismo
  5. D5. Intelligenza artificiale e robotica

Divenire 5 (2012) è interamente dedicato all'Intelligenza Artificiale (IA).

Intelligenze artificiose (Stefano Vaj) sostiene che il tema dell'automa (esecuzione di programmi antropomorfi o zoomorfi su piattaforma diversa da un cervello biologico) resta tuttora circondato da un vasto alone di misticismo: quando non viene negata in linea di principio la fattibilità dell'IA, ne viene esagerata escatologicamente la portata. (english version)

La maschera dell'intelligenza artificiale (Salvatore Rampone) indaga gli equivoci concettuali sottostanti alla domanda se una macchina abbia intelligenza o possa pensare e spiega perché l'IA debba nascondersi sotto la maschera del Soft computing.

Il problema filosofico dell'IA forte e le prospettive future (Domenico Dodaro) Analizza il tema della coscienza  semantica mettendo in luce i suoi  aspetti corporei e considera la possibilità di implementarli in sistemi artificiali. Sono valutati sia i limiti tecnologici e computazionali della riproduzione artificiale della coscienza (intesa come una facoltà del vivente) sia i programmi di ricerca più fecondi al fine di arginarli.

Cervelli artificiali? (Emanuele Ratti) espone il progetto di ricerca forse più ardito nel campo dell'IA che emula funzioni e organi biologici: il cervello artificiale di Hugo de Garis, introducendo concetti chiave di questo settore disciplinare come rete neurale e algoritmo genetico.

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Presentazione

Automi e lavoratori. Per una sociologia dell'intelligenza artificiale (Riccardo Campa) sposta l'attenzione sull'impatto economico e sociale della computerizzazione e della robotizzazione. Quali effetti sull'occupazione e quali correttivi per massimizzare i benefici e minimizzare gli effetti indesiderati? Proiettando il tema nel futuro, vengono analizzati i possibili scenari, in dipendenza di diverse politiche (o non-politiche) dello sviluppo tecnologico.

Il nostro cervello cinese (Danilo Campanella) riporta l'origine dei calcolatori moderni all'antica Cina. Utilizzando matematica, teologia e misticismo, i cinesi elaborarono i primi rudimenti del linguaggio binario, poi rubato dagli occidentali.

Alan Turing: uno spirito transumanista (Domenico Dodaro) Sono esposte le ragioni per cui Turing può essere definito un pensatore transumanista. Il matematico inglese è in genere descritto solo come padre dell'IA tradizionalmente intesa. L'analisi dell'autore dimostra invece la sua vicinanza ai temi delle "nuove scienze cognitive" e della computazione complessa (o ipercomputazione).

Passato, presente e futuro dell'Intelligenza Artificiale (Bruno Lenzi). L'articolo mostra, su un arco temporale molto ampio, fallimenti, riuscite, pericoli e scoperte delle scienze cognitive, sottolineando che l'IA non è questione solo tecnico-scientifica, racchiude germogli e frutti maturi in ogni area del sapere, e potrebbe essere molto diversa dall'intelligenza umana.

Post-embodied AI (Ben Goertzel). L'autore, uno dei principali sostenitori dell'AI forte, analizza la questione filosofica dell'embodiment: una intelligenza artificiale forte (capace di risolvere problemi in domini nuovi, di comunicare spontaneamente, di elaborare strategie nuove) deve necessariamente avere un body?

Nanotecnologia: dalla materia alle macchine pensanti (Ugo Spezza) spiega questo ramo della scienza applicata che progetta nanomacchine e nanomateriali in molteplici settori di ricerca: biologia molecolare, chimica, meccanica, elettronica ed informatica. L'articolo presenta le applicazioni già esistenti e le fantastiche potenzialità progettuali, dai nanobot per il settore medico ai neuroni artificiali.

Verso l'Intelligenza artificiale generale (Gabriele Rossi) introduce la Matematica dei Modelli di Riferimento degli iLabs ed esplora i potenziali vantaggi di questa prospettiva alla luce di alcune questioni teoriche di fondo che pervadono tutta la storia della disciplina.

Ich bin ein Singularitarian (Giuseppe Vatinno) è una recensione di La singolarità è vicina di Ray Kurzweil.

NUMERI DELLA RIVISTA

Divenire 1. Bioetica e tecnica

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 2. Transumanismo e società

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 3. Speciale futurismo

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 4. Il superamento dell'umanismo

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

Divenire 5. Intelligenza artificiale e robotica

INTRODUZIONE

ATTUALITÀ

GENEALOGIA

FUTUROLOGIA

LIBRERIA

RICERCHE

1

2

3

4

CHI SIAMO

Comitato scientifico

Riccardo Campa
Docente di metodologia delle scienze sociali all'Università Jagiellonica di Cracovia
Patrizia Cioffi
Docente di neurochirurgia all'Università di Firenze
Amara Graps
Ricercatrice di astronomia all'Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario
James Hughes
Docente di sociologia medica al Trinity College del Connecticut
Giuseppe Lucchini
Docente di statistica medica all'Università di Brescia
Alberto Masala
Ricercatore di filosofia all'Università La Sorbonne (Paris IV)
Giulio Prisco
Vice-presidente della World Transhumanist Association
Salvatore Rampone
Docente di Sistemi di elaborazione delle informazioni all'Università degli studi del Sannio
Stefan Lorenz Sorgner
Docente di filosofia all'Università di Erfurt
Stefano Sutti
Docente di diritto delle nuove tecnologie all'Università di Padova
Natasha Vita-More
Fondatrice e direttrice del Transhumanist Arts & Culture H+ Labs

Ait

L'AIT (Associazione Italiana Transumanisti) è un'organizzazione senza scopo di lucro con la missione di promuovere, in ambito culturale, sociale e politico, le tecnologie di potenziamento dell'essere umano.

Fondata nel 2004, è stata formalizzata mediante atto pubblico nel 2006 ed ha avviato le pratiche per ottenere il riconoscimento.

Sede legale AIT: via Montenapoleone 8, 20121 Milano

Sito internet AIT: www.transumanisti.it (>)

Pubblica questa rivista: Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano

Curatore: Riccardo Campa

Segretaria di redazione: Nicoletta Barbaglia

Art director: Emmanuele Pilia (>)

Gruppo di Divenire su Facebook: (>)

Contatti

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Automi e lavoratori. Per una sociologia dell'intelligenza artificiale

Autore: Riccardo Campa

da: Divenire 5, Attualità () | pdf | stampa

"Walter, come farai a riscuotere da questi robot l'iscrizione al sindacato?" Henri Ford II, imprenditore

"Henri, dimmi tu piuttosto come farai a vendergli le tue automobili?" Walter Reuther, sindacalista

Questa ricerca è incentrata sulla dimensione sociale dell'intelligenza artificiale e dell'automazione. L'abbiamo divisa in due parti. Nella prima parte ci preoccuperemo di mettere in fila "i fatti", facendo riferimento anche a rilevazioni statistiche, a riguardo dello sviluppo dell'automazione e del suo impatto sul mondo del lavoro e la società in senso ampio. Dopo avere ricostruito i fatti "reali" (del presente), ci occuperemo anche di quelli "possibili" (del futuro). In altre parole cercheremo di capire dove porta il trend, assumendone l'invarianza. Questa sarà l'analisi sociologica propriamente detta.

Nella seconda parte ci occuperemo invece di idee. Valuteremo tecnicamente le "idee" (presenti) e l'impatto che potrebbero avere sui "fatti" (futuri). In altre parole, metteremo da parte l'ipotesi dell'invarianza del trend e ci addentreremo in un'analisi sociotecnica, ossia in uno studio delle politiche e delle ideologie volte a forgiare il futuro, per saggiarne la praticabilità e la plausibilità 1 . In entrambe le analisi, sociologica e sociotecnica, particolare attenzione verrà posta sul caso italiano.

Parte I: Analisi sociologica

1.1. Intelligenza artificiale e automazione industriale

Quello di "intelligenza artificiale" (IA) è un concetto ampio che include tutte le forme di pensiero prodotte da macchine artificiali. Il concetto di IA è dunque fortemente legato a quello di automazione, ossia di comportamento autonomo da parte delle macchine, seppure in risposta a certi input e in presenza di programmi. Sono automi tutte le macchine inorganiche progettate e costruite dall‟uomo – siano esse computer da tavolo o robot semoventi, lavastoviglie o telai meccanici – capaci di svolgere quei compiti che l'uomo stesso svolge utilizzando la propria intelligenza. Data questa definizione, accettata per esempio da Marvin Minsky, uno dei pionieri della computer science, segue che tutti gli automi funzionanti sono dotati di un certo grado di intelligenza artificiale. Il frigorifero è meno intelligente di un PC, più o meno allo stesso modo in cui un insetto è meno intelligente di un vertebrato. E qualcuno non esita a comparare le diverse forme di intelligenza organica e inorganica 2 .

L'automazione non è dunque una novità di questi anni, ma il frutto di un lungo e lento processo storico che può essere fatto risalire ai calcolatori ad ingranaggi di Charles Babbage o Blaise Pascal, se non addirittura agli automi di Erone. Perciò, chi ha una concezione più rivoluzionaria dell'intelligenza artificiale ha sentito l'esigenza di introdurre una distinzione tra IA debole e IA forte – distinzione che ha una dimensione filosofica e tocca questioni come il funzionamento del cervello e l'ontologia della mente. Non sarà, però, questo il tema del nostro articolo. Qui intendiamo piuttosto occuparci degli aspetti sociologici dell'intelligenza artificiale – non importa se compresa in senso debole o forte, discreto o gradualistico. In altre parole, intendiamo analizzare le conseguenze sociali, politiche ed economiche della produzione e dell'uso di automi o macchine pensanti. Poniamo soltanto dei limiti temporali e spaziali alla nostra analisi. Ci occuperemo dell'intelligenza artificiale nell'ambito della terza rivoluzione industriale 3 , collocabile negli ultimi decenni del XX secolo e nel primo del XXI secolo. In questo periodo, l'automazione si identifica in particolare con computerizzazione e robotizzazione. E ci occuperemo soprattutto dell'Italia, che potrà però essere vista come caso esemplare, visto che si colloca pur sempre tra le prime sette potenze industriali del pianeta.

Una delle applicazioni più sistematiche dei calcolatori elettronici e dei robot si è finora registrata negli stabilimenti industriali. I microprocessori sono onnipresenti. I personal computer si trovano in ogni casa e ogni ufficio. Non c'è istituzione che non faccia affidamento per qualche lavoro sull'IA, in una delle sue forme. Tuttavia, è nell'industria manifatturiera che si osservano alcuni effetti sociali macroscopici dell‟emersione di questa tecnologia.

Tutti abbiamo visto almeno una volta robot che verniciano, saldano e assemblano automobili, nonché prodotti elettronici, come radio, televisori e computer. Sono i cosiddetti robot industriali, che nelle società tecnologicamente avanzate hanno affiancato e, in molti casi, sostituito l'operaio alla catena di montaggio. La comparsa dei primi robot industriali si registra negli anni cinquanta, ma è solo a partire dagli anni settanta che la loro presenza nelle fabbriche italiane inizia a diventare significativa. Si tratta di strutture d'acciaio di notevoli dimensioni, dotate di un rudimentale cervello elettronico, facoltà percettive, servomeccanismi, e motori idraulici. I robot industriali della prima generazione sono lenti e non particolarmente intelligenti, per cui le loro mansioni sono limitate ai lavori che non richiedono alta precisione, come appunto la verniciatura a spruzzo e la saldatura delle scocche. I lavori di precisione sono ancora riservati all'uomo. Tuttavia, com'era prevedibile, la situazione è poi rapidamente cambiata e già negli anni ottanta si potevano vedere robot in grado di assemblare complessi circuiti elettronici, inserendo e saldando i dispositivi in pochi secondi e senza errori.

I robot industriali diventano sempre più antropomorfi. Aumenta il loro grado di libertà 4 , la precisione, la velocità e la capacità di carico. Nell'industria automobilistica e meccanica si sono via via appropriati di molte altre mansioni che richiedono accuratezza, come foratura, smerigliatura, fresatura, taglio, ma anche pallettizzazione e stoccaggio. Sono ormai dotati di apparati laser e sistemi visivi che consentono di eseguire operazioni con precisione millimetrica.

Se inizialmente sono gli industriali statunitensi a tracciare la strada, risultando produttori della maggior parte dei robot, dagli anni settanta si registra anche il massiccio ingresso nel settore del Giappone. Infatti, tra gli aspetti caratterizzanti della terza rivoluzione industriale va posta anche la riorganizzazione dei processi produttivi, con la totale informatizzazione e automazione della fabbrica, che vede nella Toyota il vero pioniere. Non a caso si tende a contrapporre il modello toyotista al modello di organizzazione ford-taylorista, basato sulla catena di montaggio. Secondo Cristiano Martorella, «la rivoluzione industriale giapponese ha così trasformato la fabbrica in un sistema informatico ed ha liberato l'uomo dal lavoro meccanico, trasformandolo in un supervisore dei processi produttivi. Ciò avviene in un periodo storico che vede il passaggio dalla società industriale alla società post-industriale. Questa svolta epocale sarà ben compresa quando il passaggio alla società dei servizi e dell'informazione sarà completato» 5 .

Anche l'Italia fa la sua parte. La Fiat è la prima azienda italiana ad usare massicciamente i robot industriali. In genere, il nostro paese tende ad importare l'elettronica digitale dall'estero, avendo perso terreno nel settore, in particolare dopo la ritirata di Olivetti nel 1997. Però, nella robotica si registrano interessanti eccezioni a questa regola. Per esempio, il Robogate è un'invenzione italiana che viene poi adottata da tutte le industrie automobilistiche.

Non ci addentriamo ora in altri dettagli tecnici, per i quali il lettore può trarre beneficio dalla lettura di manuali sull'argomento 6 . Piuttosto, diamo una rapida occhiata alla magnitudine del processo di robotizzazione delle industrie. Come sottolinea il giornalista de la Repubblica Luigi Bignami, «sono più di un milione i robot di "vecchia" generazione, quelli che lavorano nelle industrie del pianeta: 350 mila solo in Giappone, 326.000 in Europa. In Italia per ogni 10.000 persone occupate nell'industria più di 100 sono robot, un numero che fa del nostro Paese uno tra i primi al mondo in questo settore. Sono impiegati soprattutto nella lavorazione meccanica, nella saldatura e nella lavorazione della plastica. E i loro prezzi continuano a scendere: un robot comprato nel 2007 può costare un quarto rispetto allo stesso robot venduto nel 1990. E il suo costo annuale se nel 1990 valeva 100, oggi non supera 25» 7 .

Più precisamente, l'Italia è il secondo paese in Europa e il quarto al mondo per densità di robot, come risulta da un più accurato studio statistico dell'Unece 8 . Sono già state superate le 50.000 unità e si registra una costante crescita.

1.2. Effetti sull'occupazione

Grazie ai censimenti Istat, possiamo operare un confronto piuttosto accurato tra la crescita dell'automazione da una parte e gli effetti sull'occupazione dall'altra. Se si esclude il censimento degli opifici del Regno d'Italia risalente al 1911, l'Istat ha realizzato otto censimenti relativi all'industria, il commercio e i servizi (1927, 1937-39, 1951, 1961, 1971, 1981, 1991, 2001), mentre il IX censimento (2011) è in corso. Non è sempre facile operare un confronto diretto tra i dati statistici, perché nel tempo sono cambiate le tecniche di rilevamento e le categorie sotto scrutinio: fino al 1971 il focus era su "industria e commercio", mentre dal 1981 è su "industria e servizi". Ma diversi ricercatori hanno provveduto ad "armonizzare" le serie statistiche, rendendo possibile la lettura complessiva dei dati. Inoltre, a noi interessa ora l'industria manifatturiera e di conseguenza lo spostamento del focus dal commercio ai servizi incide a livello marginale. Partiamo tuttavia da un confronto delle ultime tre serie statistiche (1981, 1991, 2001), che sono abbastanza omogenee. La tabella riguarda i dati assoluti:

Tavola – Imprese e addetti per settore di attività economica - 1981, 1991, 2001
1981 1991 2001
Attività economiche Imprese Addetti Imprese Addetti Imprese Addetti
Agricoltura e pesca (a) 30.215 110.195 31.408 96.759 34.316 98.934
Industria estrattiva 4.477 56.791 3.617 46.360 3.837 36.164
Industria manufatturiera 591.014 5.862.347 552.334 5.262.555 542.876 4.894.796
Energia, gas e acqua 1.398 42.878 1.273 172.339 1.983 128.287
Costruzioni 290.105 1.193.356 332.995 1.337.725 515.777 1.529.146
Commercio e riparazioni 1.282.844 3.053.706 1.280.044 3.250.564 1.230.731 3.147.776
Alberghi e pubblici esercizi 212.858 644.223 217.628 725.481 244.540 850.674
Trasporti e comunicazioni 132.164 679.386 124.768 1.131.915 157.390 1.198.824
Credito e assicurazioni 27.775 446.745 49.897 573.270 81.870 590.267
Altri servizi 274.463 911.560 706.294 1.977.334 1.270.646 3.238.040
TOTALE 2.847.313 13.001.187 3.300.258 14.574.302 4.083.966 15.712.908

Sebbene il numero degli occupati nel complesso sia cresciuto nel ventennio 1981-2001, è altrettanto evidente che il numero degli operai ha subìto un netto calo. Il dato è significativo, anche considerando il fatto che nel frattempo la popolazione italiana complessiva è cresciuta, seppur non ai ritmi dei decenni precedenti 9 . Possiamo ora estendere all'indietro il campo di indagine, per scoprire che fino al 1981 gli occupati nell'industria erano invece in crescita. Ci aiuta una ricerca di Margherita Russo ed Elena Pirani 10 che copre l'arco di mezzo secolo. Le tabelle, opportunamente ricostruite e armonizzate, mostrano prima l'ascesa e poi il calo dell'occupazione, sia in termini assoluti che percentuali.

Appendice – Dinamica degli addetti in Italia, per settori di attività economica, 1951-2001 (valori assoluti)
1951 1961 1971 1981 1991 2001
Metalmeccanica 1.041.962 1.569.306 2.166.813 2.745.513 2.531.295 2.496.658
Resto del manufatturiero 2.456.258 2.928.698 3.141.774 3.397.865 3.253.313 2.766.994
Servizi 100.802 110.194 170.550 702.928 1.147.988 2.208.853
Totale attività economiche 6.781.092 9.463.457 11.077.533 16.883.286 17.976.421 19.410.556
Totale manufatturiero 3.498.220 4.498.004 5.308.587 6.143.378 5.784.608 5.263.652

Si potrebbe dunque pensare che – visto il calo delle aziende e degli addetti nel ventennio 1981-2001 – siamo entrati in una fase di deindustrializzazione. Questo è in parte vero 11 , ma i dati relativi alla produzione industriale mostrano che al calo degli addetti con corrisponde un calo della produzione. Anzi, piuttosto il contrario. Si veda, a proposito, la ricerca di Menghini e Travaglia sull'evoluzione dell'industria italiana, ove le tabelle relative al decennio 1981-1991 (anni ottanta) e 1991-2001 (anni novanta) mostrano una crescita apprezzabile della produzione industriale 12 .

In attesa del censimento Istat sul decennio 2001-2011, osserviamo che le rilevazioni intermedie in questo periodo sono meno "lineari" a causa dei due grandi eventi epocali che hanno caratterizzato gli anni 2000: a) l'attacco terroristico agli USA e conseguente guerra in Medio Oriente; b) la grande crisi economica iniziata nel 2008 e tutt'ora in corso. I dati Istat mostrano che nel biennio 2008-2010 il crollo dell'occupazione diventa molto accentuato, mentre subisce una flessione anche la produzione industriale, in Italia come negli altri paesi occidentali.

Facendo la tara di queste grandi turbolenze, possiamo però dire che nel complesso, negli ultimi tre decenni, si vede un trend caratterizzato da calo degli addetti nell'industria e crescita della produzione industriale. Questo non può stupire, se si considera che la produttività dipende anche da altri fattori. L'altro fattore che cresce notevolmente nello stesso periodo è proprio l'automazione, ossia il massiccio impiego di computer e robot nell'industria manifatturiera 13 . Tutto fa dunque pensare che esista una relazione tra calo dell'occupazione nell'industria e crescita dell'automazione. Questa è l'ipotesi su cui vogliamo ragionare.

Apriamo una parentesi. È noto che i dati non solo si leggono, ma si interpretano. Una correlazione statistica non implica una dipendenza causale tra fenomeni. Dunque, i dati statistici possono essere solo un punto di partenza, al quale vanno poi aggiunti altri elementi, altre considerazioni. Ma senza dati statistici non si parte neppure. A chi dice che la statistica è inaffidabile e quindi se ne può fare tranquillamente a meno, rispondiamo parafrasando un noto detto popolare: i soldi non fanno la felicità, figuriamoci la miseria. Analogamente diciamo che: le statistiche non danno la certezza, figuriamoci le mere impressioni. Chiusa parentesi.

Per le interpretazioni ci affidiamo a quello che forse è il massimo esperto di sociologia del lavoro in Italia: Luciano Gallino. Cerchiamo di fare luce innanzitutto sulla questione della "disoccupazione tecnologica":

La tecnologia è essenzialmente un mezzo per fare due cose diverse. Da un lato si può cercare di produrre di più, anche molto di più, utilizzando la stessa quantità di forze di lavoro. D'altra parte, si può cercare di utilizzare le potenzialità della tecnologia per ridurre le forze di lavoro impiegate per produrre un determinato volume di beni o di servizi. E di qui viene fuori un'equazione molto semplice: fintanto che si riesce ad aumentare la produzione, il che vuol dire fintanto che si riescono ad allargare i mercati, la tecnologia non produce disoccupazione, perché la forza lavoro rimane costante e quello che si allarga sono i volumi di produzione, sono i mercati. I mercati, però, diversi tra di loro, variati come sono, non possono in generale espandersi all'infinito. Quando i mercati non possono più espandersi, la tecnologia viene impiegata prevalentemente per ridurre le forze di lavoro e incomincia a profilarsi lo spettro della disoccupazione tecnologica 14 .

Gli economisti tendono a sottovalutare il problema della disoccupazione tecnologica, perché si è osservato che lo sviluppo tecnologico degli ultimi duecento anni non ha portato a percentuali insostenibili di disoccupazione. In genere, si elude la questione dicendo che ogni nuova tecnologia elimina un posto di lavoro e ne crea un altro. Se il computer toglie il lavoro ad un impiegato, servirà comunque un tecnico per la costruzione o la manutenzione del computer. C'è un grano di verità in questa osservazione, ma la questione è leggermente più complessa. In questa osservazione aleggia sempre l'idea della mano invisibile, del mercato che si autoregola. In realtà, il sistema finora ha retto grazie all'intervento costante dei governi, con politiche di vario tipo. Il riassestamento del sistema economico, in seguito all'introduzione di nuove rivoluzionarie tecnologie, non avviene in tempo reale e senza costi. Se è vero che l'operaio o l'impiegato sostituiti da una macchina possono trovare un altro impiego, magari di nuovo tipo, è anche vero che essi potrebbero non avere le competenze per il nuovo lavoro (per esempio: manutenzione dei computer) e che, per acquisirle, hanno bisogno di mesi o forse anni – sempre che ci riescano. Dunque, il posto di lavoro sostitutivo potrebbe presentarsi uno o due anni dopo la perdita del lavoro. L'essere umano è una macchina fragile – che non sopravvive più di qualche giorno se non assume una certa quantità di calorie, non si copre con indumenti e non riposa in un luogo riparato. Allo stesso tempo, questa macchina tende ad esibire comportamenti violenti e distruttivi, se viene posta di fronte all'eventualità del proprio spegnimento. Perciò, sarà anche vero che il mercato si autoregola, ma poiché non lo fa immediatamente, se si vogliono evitare gli effetti collaterali istantanei della disoccupazione tecnologica, si deve mettere in gioco la mano pubblica oltre a quella invisibile.

Questo è quello che hanno fatto tutti i governi, anche quelli più orientati in senso liberista e capitalista. Da più di un secolo, i governi hanno sistematicamente imposto agli imprenditori la riduzione degli orari di lavoro, per costringerli – contro il loro interesse – a mantenere il livello di occupati 15 . Hanno istituto strumenti come il sussidio di disoccupazione o la cassa integrazione guadagni. Hanno riassorbito quote di disoccupati nell'impiego pubblico, a volte in modo produttivo e altre volte creando sacche di parassitismo. Hanno acquistato i beni prodotti dai privati attraverso commesse pubbliche. Hanno pagato corsi di aggiornamento e riqualificazione ai disoccupati cronici. E, nei casi più tragici, hanno ovviato agli effetti delle crisi economiche scatenando guerre. I conflitti da un lato riducono la popolazione con l'invio al fronte di intere generazioni e dall'altro permettono il riassorbimento dei disoccupati nell'industria bellica. Per quanto cinico possa apparire, questo è accaduto e continua ad accadere.

Questi strumenti, in special modo la sistematica riduzione degli orari di lavoro e i sussidi ai disoccupati temporanei, hanno funzionato piuttosto bene fino ad oggi. Ora la comparsa di due nuovi fattori – la globalizzazione e l'intelligenza artificiale – ha creato una situazione nuova rispetto a quelle generate dalla prima e dalla seconda rivoluzione industriale. La globalizzazione non permette più di operare sulla riduzione degli orari di lavoro. Sarebbe un'operazione suicida, se l'idea non fosse condivisa a livello globale e adottata da tutti i paesi. La globalizzazione ha però creato un unico grande mercato, ma non un'unica grande società guidata da un governo che ne sia espressione autentica. Esiste probabilmente una sorta di "governo ombra mondiale", altrimenti non si capisce verso chi o che cosa gli stati nazionali stanno cedendo la propria sovranità, ma – se qualcosa di simile esiste – assomiglia ad una oligarchia finanziaria che fa comprensibilmente i propri interessi, più che una elite illuminata disposta a fare gli interessi di tutti. L'idea che possa esistere un mercato senza società produce, come stiamo osservando, conseguenze critiche.

Inoltre, c'è la questione dell'intelligenza artificiale. L'idea che ogni lavoro cancellato da una tecnologia venga prima o poi rimpiazzato da un lavoro generato dalla tecnologia stessa è messa in dubbio dalla natura stessa dell'automazione. Afferma Gallino: «Questa equazione da libricino di testo regge molto meno nell'età dell'automazione spinta, quella che io chiamo "l'automazione ricorsiva". I posti che la tecnologia creava nuovamente dopo averne soppressi una certa quantità erano recuperati in parte dall'allargamento dei mercati ma in parte anche producendo mezzi tecnologici, cioè producendo le stesse macchine produttrici di beni e servizi che i mercati fino ad un certo punto assorbivano. Con l'automazione applicata a se stessa, le macchine producono altre macchine per fare l'automazione, il processo di automazione raggiunge livelli altissimi e quindi non c'è più nessuna speranza o perlomeno si riducono di molto le speranze di trovare prima o poi un nuovo posto di lavoro nei settori che producono la tecnologia che ha eliminato il posto originario, il posto di partenza» 16 .

Tutte le evidenze empiriche mostrano che la disoccupazione tecnologica è più che un'ipotesi. È sulla base di dati e numeri, e non certo di moralismi, che Gallino critica il PEC. Istruttivo, anche se non proprio fresco di stampa, è per esempio il libro Se tre milioni vi sembran pochi 17 , dove il sociologo torinese pone al centro dell'analisi l'automazione ricorsiva poc'anzi accennata. Così, in una recensione, Patrizio Di Nicola riassume le idee centrali del libro:

  • Al mito della ripresa che genera occupazione l'autore oppone l'evidenza statistica italiana: in trenta anni il Pil è cresciuto del 100%, ma il numero degli occupati è aumentato soltanto del 2,1%, quindi di 400 mila unità. Ma nello spesso periodo i cittadini residenti sono aumentati di oltre 6 milioni;
  • L'idea che la tecnologia crei, sul lungo termine, più posti di lavoro di quanti ne distrugga era valida, afferma l'autore, in passato, ma non più ai giorni nostri. L'aumento di produttività dato dalle nuove macchine può generare un saldo occupazionale positivo soltanto se i mercati assorbono più merci. Ma in Italia le aziende operano su mercati maturi e in parte statici e l'esportazione in questi settori è tutt'altro che facile;
  • Il consiglio di fare «come gli americani», che sembrano essere riusciti a creare una job machine fenomenale, è basato su presupposti ingannevoli. Infatti da una parte l'aumento dei posti di lavoro è conseguenza diretta dell'aumento della popolazione (passata, tra il 1980 e il 1995 da 227,8 a 263,4 milioni di unità). Dall'altra la performance occupazionale americana è aiutata da un meccanismo statistico un po' disinvolto. Tra gli occupati, infatti, sono conteggiati: 6 milioni di studenti tra i 16 e 24 anni, che hanno però lavorato almeno un'ora nella settimana precedente la rilevazione (magari lavando la macchina del vicino o distribuendo i giornali prima di andare al college); 20 milioni di contingent workers, persone che lavorano saltuariamente, quando possono; 23 milioni di occupati part-time, i quali, in realtà, corrispondono a 12 milioni di posizioni lavorative full time. E come sovrastimano gli occupati – nota Gallino – le statistiche ufficiali made in Usa sottostimano i disoccupati, che, applicando i criteri europei, dovrebbero essere, anziché 5,3% della popolazione, oltre il 12%. Quindi un po' più della media europea.
  • All'idea che lo stato sociale sia il maggior responsabile degli scarsi livelli occupazionali Gallino oppone alcuni "strani casi": l'Italia, con il 12,2% di disoccupati, spende per le prestazioni sociali il 25,1% del Pil, mentre l'Olanda, che ha un tasso di disoccupazione del 6,5, spende di più: il 29,8%. La Danimarca, paese ove la disoccupazione è ai minimi europei, getta nello stato sociale il 32,7% del Pil. All'opposto la Spagna, che investe nel welfare meno di noi, ha una disoccupazione superiore al 22% 18 .

In sintesi, la crescita della produzione e della produttività non hanno necessariamente come portato la crescita dell'occupazione. La relazione tra crescita e occupazione è oltremodo debole in un paese che non produce tecnologie, ma per lo più le importa 19 . Il modello americano è un'illusione perché i dati occupazionali sono "gonfiati" (e, dieci anni dopo la pubblicazione del libro, la situazione si è persino aggravata in seguito alla deflagrazione della crisi finanziaria). Il welfare – stando ai numeri – più che un ostacolo alla crescita sembra essere un fattore di produzione, ma quasi tutti i paesi occidentali tendono a rispondere alla crisi smantellando o riducendo lo stato sociale.

E c'è di più. Non si può nemmeno sperare che chi viene espulso dall'industria, venga poi necessariamente riassorbito nei servizi (pubblici o privati che siano), «perché i servizi sono automatizzabili esattamente come è automatizzabile la produzione di beni» 20 . Quest'ultimo aspetto va visto più in dettaglio.

1.3. Stratificazione sociale e robot di nuova generazione

L'automatizzazione si sta già espandendo al di fuori dell'industria manifatturiera. L'evoluzione dei robot produce ora effetti anche sul terziario. Bignami non manca di precisare che «anche tra le mura di casa la loro presenza cresce, ad un tasso del 7-8 per cento l'anno» 21 . Secondo le previsioni di Bruno Siciliano, presidente della Società Internazionale di Robotica e Automazione, «dei 66 miliardi di dollari che rappresenteranno il fatturato della robotica nel 2025, il 35% riguarderà i robot personali o di servizio» 22 . Ecco perché, se abbiamo fallito di porre nei giusti termini il problema sociale della robotizzazione in passato, sarebbe ancora più miope non porlo ora. «I robot dunque, sono ormai ovunque. Nelle nostre case, nei nostri uffici, nelle nostre auto. Sono i badanti degli anziani: in Corea del Sud è stato messo a punto quello che controlla gli elettrodomestici e avvisa l'anziano quando è l'ora della medicina. Fanno da infermieri agli ammalati (negli Usa alcuni prototipi misurano persino la temperatura) oppure si trasformano in cuccioli scodinzolanti (è il caso, tra gli altri, di "Aibo") e presto li assumeremo come baby-sitter se è vero che alcune aziende stanno studiando il modo per "insegnare" all'automa come si fa a cullare un neonato» 23 .

Di tutto questo scienziati e filosofi parlano di tanto in tanto, in simposi e conferenze, ma la questione sembra virtualmente assente dalle agende politiche. Si è sottovalutato il problema per due ragioni principali: il potere di lobbying delle grandi industrie, che traggono solo benefici dalla robotizzazione e perciò non sentono la necessità di ridiscutere in termini più ampi il problema, e la convinzione diffusa che i robot non avrebbero mai potuto imitare l'uomo fino in fondo. Ma come rileva Siciliano, abbiamo oggi robot capaci di lavorare con la stessa abilità di un artigiano. «Sono al lavoro nella zona compresa fra Vietri e Cava dei Tirreni, dove imitano i maestri ceramisti» 24 . In pratica, il robot non solo è capace di imitare e superare in precisione la produzione su catene di montaggio, ma anche quell'umana imprecisione degli artigiani che ne rende così caratteristico il prodotto. Un sistema ottico registra le pennellate imprecise degli artigiani, tutte diverse una all'altra. Sulla base di queste informazioni viene elaborato un programma, il quale, una volta implementato nel robot, lo rende capace di produrre mattonelle una diversa dall'altra.

Procedendo in questa direzione, il robot potrebbe arrivare a rimpiazzare l'uomo anche nelle attività che implicano capacità decisionali. Di questo è per esempio convinto Antonio Monopoli: «È verosimile che con il tempo si genereranno robot con capacità di autoapprendimento sempre maggiori. Avremo insomma robot capaci di "decidere", condizione condivisa con l'essere umano» 25 . Con questo passo, secondo Bignami, «l'espansione della robotica porta anche a problemi di etica, e non a caso di "Roboetica" si parlerà anche al convegno dell'Icra. Un problema che potrebbe sorgere è l'eventuale inadeguatezza della risposta del robot di fronte ad un evento. In caso di danni, di chi sarebbe la responsabilità?» 26 . Monopoli risponde che: «Se il robot viene considerato alla stregua di una macchina, la responsabilità ricade sul suo proprietario. Ma se il robot ha una grossa capacità di autoapprendimento e interazione col mondo esterno, e da un punto di vista sociale è ormai condivisa l'idea di una condizione di autonomia operativa dei robot, si potrebbe invocare la perfetta buonafede di chi ha progettato e commercializzato il robot» 27 .

Questi vengono in genere inquadrati come problemi della roboetica, dunque come problemi etici, ovvero in linea di principio universali – riguardanti l'umanità – e non precipuamente politici – ovvero riguardanti gli interessi di una polis, una comunità, una fazione, un gruppo sociale. Ora vorremmo sottolineare che il problema – etico o politico che sia – nasceva già prima, con ingresso nelle fabbriche dei grandi robot industriali. L'uscita dei robot dalle fabbriche e il loro ingresso nelle case e negli uffici fa parte semmai di una evoluzione di vecchi problemi già sollevati dalla rivoluzione industriale. Le classi dirigenti hanno derubricato la questione della disoccupazione tecnologica come problema "tecnico" e non certo "etico", quando vittima del processo di automazione era la classe operaia. Sarebbe curioso, se ora le stesse classi dirigenti si scandalizzassero vedendo un robot antropomorfo sedersi sulla scrivania del direttore o intelligenze artificiali al posto dei manager nelle stanze dei bottoni delle grandi aziende. Probabilmente, se Karl Marx fosse vivo direbbe che la borghesia si accorge del problema etico quando il robot si rivela capace di sostituire anche il manager, l'artigiano, il medico, l'insegnante, acquisendo capacità decisionali – e non più solo il proletario alla catena di montaggio. Ancora una volta, il gruppo dominante identifica se stesso con l'umanità e fa del proprio problema politico, dei propri interessi di classe, un problema etico universale.

1.4. Uno sguardo al futuro

Un autore che si è preoccupato di prefigurare i possibili sviluppi dell'automazione è Hans Moravec. Essendo un ingegnere robotico, parte da una base solida sotto il profilo tecnico, per estrapolare dati dal presente e proiettarli nel futuro. D'altro canto, la sua prospettiva futurologica soffre del fatto che manca di una sensibilità tipica delle scienze sociali, le quali tendono ad inquadrare i problemi sociali nella loro complessità, con la consapevolezza che è spesso difficile distinguere le cause dagli effetti e che le stesse previsioni sono parte del processo che si intende prevedere. Detto in parole semplici, Moravec vede sempre ed invariabilmente la tecnologia come causa e gli assetti sociali come conseguenza, mai viceversa, e non considera che le politiche industriali hanno un peso nel processo e possono variare notevolmente. Nella realtà sociale si osserva più spesso una confusa interazione tra diverse variabili che una semplice catena di cause ed effetti. Comunque, al netto di questi limiti – e considerando oltretutto che non c'è prospettiva che non soffra di qualche limite – Moravec offre un quadro molto interessante, sul quale vale la pena di riflettere con attenzione. Diciamo che ci mostra quello che potrebbe accadere in un'ottica di laissez-faire, ovvero se nessuna politica dall'alto cercasse di indirizzare il corso della storia futura.

Nella prima parte del saggio "The Age of Robots" 28 , l'ingegnere descrive quattro generazioni di robot universali, il cui avvento coincide rispettivamente con le quattro prime decadi del XXI secolo. Non ci addentriamo nella descrizione tecnica, limitandoci a sottolineare che la prima generazione è quella dei robot che vediamo di tanto in tanto in televisione o nelle esposizioni, la seconda generazione si mostra invece già capace di sostituire l'uomo in moltissimi lavori anche fuori dalle fabbriche; la terza generazione presenta caratteristiche ancora più "umane" e dunque diventa concorrenziale in tutti i settori, mentre la quarta presenta addirittura caratteristiche "superumane" 29 .

Nella seconda parte dell'articolo, Moravec si sofferma sulle conseguenze sociali della comparsa dei robot universali, distinguendo il breve, il medio, e il lungo periodo. Ci basta qui analizzare il breve periodo, coincidente con la prima metà del XXI secolo. Successivamente, secondo l'autore di "The Age of Robots", il robot superumano sarà in grado di progettare "figli" ancora più potenti e intelligenti, per cui la direzione che prenderanno i robot nel lungo periodo è quella dell'assunzione di caratteristiche "semidivine". Le macchine si fonderanno con gli umani che restano in circolazione – attraverso la tecnologia del mind-uploading – e colonizzeranno lo spazio, convertendo altra materia inorganica in materia pensante. Speculazioni ardite, anche se non del tutto implausibili. Le lasciamo comunque alla curiosità del lettore.

Vediamo dunque il breve periodo. Moravec – che è tutto fuorché un luddista o un estremista di sinistra 30 – ricorda innanzitutto il doloroso trapasso dalla società agricola alla società industriale. Il costo umano di milioni di lavoratori costretti ad ammassarsi nelle aree suburbane dei distretti industriali e a competere per lavori malpagati e sempre insufficienti a soddisfare l'offerta. Senza contare il lavoro minorile, il precariato, gli orari di lavoro inumani, nonché l'assenza di politiche della sicurezza, di assistenza sanitaria, di rappresentanza sindacale, di trattamenti pensionistici. Ma questa storia è nota. Si è usciti dal "capitalismo selvaggio" del XIX secolo attraverso dure lotte sindacali, rivoluzioni e riforme, per approdare infine al welfare state. Le riforme sono quelle ricordate in apertura di articolo, in primis la periodica riduzione dell'orario di lavoro per riassorbire la disoccupazione tecnologica. Ma nell'era dei robot, proseguire sulla strada delle riforme sarà possibile?

Secondo Moravec no, perché anche se le ore di lavoro continuassero a diminuire (cosa che tra l'altro non sta nemmeno più accadendo), la diminuzione dell'orario di lavoro «non sarebbe la risposta finale alla crescita della produttività. Nel prossimo secolo poco costosi ma molto capaci robot sostituiranno il lavoro umano così ampiamente che la giornata lavorativa media dovrebbe essere portata praticamente a zero per mantenere i livelli occupazionali». Il che si presenta come un paradosso, perché se si può obbligare un privato a fare lavorare di meno gli impiegati e gli operai, non si può certo obbligarlo ad assumere e pagare persone per fare nulla. Ma non è solo questo il problema. Già oggi molti lavoratori sono riassorbiti nei servizi "frivoli" e lo saranno ancora di più in futuro, perché come abbiamo visto anche i servizi che richiedono una certa efficienza, più che creatività, saranno ad appannaggio dei robot. In pratica la funzione degli umani è e sarà sempre più "divertire" altri esseri umani, dispensando giochi, prestazioni sportive, sesso, performance artistiche o scritti speculativi (come il presente). Qualcuno è addirittura pagato per fare lavori inutili e per nulla divertenti, né per sé per gli altri: si pensi a certi burocrati del pubblico impiego che spesso vengono assunti per riassorbire la disoccupazione e finiscono quindi per essere solo di impiccio agli altri cittadini, essendo adibiti al controllo e all'esecuzione di regolamenti del tutto inutili, quando non addirittura dannosi.

Saremo tutti adibiti ai servizi frivoli o inutili? Potrebbe essere una soluzione, ma nemmeno questa strada sembra percorribile. «L'"economia dei servizi" oggi funziona perché molti esseri umani che comprano i servizi lavorano nelle industrie primarie, e quindi immettono denaro nel circuito dei produttori di servizi, i quali a loro volta usano il denaro per acquistare beni essenziali. Ma se la percentuale di umani nelle industrie primarie evapora, il circolo si rompe, perché i razionalissimi (no-nonsense) robot non si dedicheranno al consumo frivolo. Il denaro si accumulerà nelle industrie, arricchendo le persone che sono ancora lì, diventando scarso tra i fornitori di servizi. I prezzi dei prodotti primari crolleranno, riflettendo sia il ridotto costo di produzione, sia le ridotte capacità di acquisto dei consumatori. Fino ad arrivare al ridicolo estremo, in cui nessuna quantità di denaro rifluisce, e i robot riempiranno capannoni di beni essenziali che i consumatori umani non potranno acquistare».

Se non si raggiungerà proprio l'estremo, si avrà comunque una minoranza di capitalisti (gli stockholder) che continueranno a fare profitti, grazie ad una legione di efficienti lavoratori che non scioperano, non si ammalano, lavorano ventiquattro ore al giorno, esigono un "salario" pari al solo costo dell'energia e, dulcis in fundo, non vanno in pensione ma eventualmente in una discarica. Mentre per la massa dei lavoratori precari adibiti ai servizi frivoli o di trasmissione dei saperi (il cosiddetto cognitariato) e dei disoccupati cronici (il proletariato), si prospetta un ritorno al Medioevo. Moravec ricorda infatti che «una analoga situazione è esistita nei tempi classici e feudali, quando un'impoverita e sfruttata maggioranza di schiavi o servi giocava il ruolo dei robot, e i latifondisti giocavano il ruolo dei capitalisti. Tra i servi e i signori, una popolazione di lavoratori lottava per un salario derivante da risorse secondarie, spesso fornendo servizi ai privilegiati».

Uno scenario poco incoraggiante. Addirittura preoccupante, se si pensa che a prospettarlo è un entusiasta produttore di robot e un sostenitore del capitalismo. In realtà, Moravec – forse turbato dallo scenario apocalittico appena tracciato – si affretta a dire che le cose potrebbero andare anche in altro modo. Ovvero, ci prospetta uno scenario alternativo, un diverso possibile futuro, che implica però una presa di coscienza e un tentativo di pilotare diversamente la storia.

Non ci sarà necessariamente un medioevo prossimo venturo, perché i lavoratori contemporanei hanno raggiunto un tale livello di consapevolezza politica e di istruzione che difficilmente consentirebbero alla minoranza dei capitalisti di ridurli di nuovo allo stato servile. Se si arrivasse ad un tale livello di degradazione, il popolo «voterebbe per cambiare il sistema». La radicale riforma del sistema potrà prendere a sua volta due strade principali.

La prima via è quella socialdemocratica della redistribuzione di reddito attraverso la tassazione (in altre parole il circolo di denaro verrebbe riattivato dai governi, nel momento in cui si inceppasse). In questo caso, i redditi dei cittadini sarebbero uguali o paragonabili, ma comunque sufficienti a tenere in vita il sistema produttivo attraverso i consumi. Poiché il livello della tassazione sarebbe deciso dal popolo, si potrebbero però anche avere dei crolli di sistema – se tale livello risultasse insostenibile in un sistema globale ancora concorrenziale. In altre parole, industrie robotiche eccessivamente tassate fallirebbero, lasciando tutta la popolazione senza reddito.

La seconda via potrebbe essere una sorta di ibrido social-capitalista basato sulla diffusione della proprietà dell'industria robotica tra la popolazione, con l'assegnazione di un pacchetto di azioni ad ogni cittadino alla nascita. In questo caso i redditi sarebbero diversi, a seconda delle performance delle aziende. Tutti avrebbero di che vivere, ma il livello salariale non potrebbe più essere deciso attraverso votazioni. Riportiamo il passo di Moravec per intero.

The trend in the social democracies has been to equalize income by raising the standards of the poorest as high as the economy can bear – in the age of robots, that minimum will be very high. In the early 1980s James Albus, head of the automation division of the then National Bureau of Standards, suggested that the negative effects of total automation could be avoided by giving all citizens stock in trusts that owned automated industries, making everyone a capitalist. Those who chose to squander their birthright could work for others, but most would simply live off their stock income. Even today, the public indirectly owns a majority of the capital in the country, through compounding private pension funds. In the United States, universal coverage could be achieved through the social security system. Social security was originally presented as a pension fund that accumulated wages for retirement, but in practice it transfers income from workers to retirees. The system will probably be subsidized from general taxes in coming decades, when too few workers are available to support the post World War II "baby boom". Incremental expansion of such a subsidy would let money from robot industries, collected as corporate taxes, be returned to the general population as pension payments. By gradually lowering the retirement age towards birth, most of the population would eventually be supported. The money could be distributed under other names, but calling it a pension is meaningful symbolism: we are describing the long, comfortable retirement of the entire original-model human race.

In estrema sintesi, Moravec delinea due scenari possibili: uno distopico e uno utopico. Nella peggiore delle ipotesi avremo la riduzione in schiavitù dell'umanità a vantaggio di una elite di capitalisti. Nella migliore delle ipotesi, gli umani vivranno per consumare e per divertirsi vicendevolmente, mentre i robot faranno il lavoro sporco e duro. Lo scenario utopico ha a sua volta due possibili varianti, una socialdemocratica e una socialcapitalista. In un modo o nell'altro, la prospettiva è che tutta l'umanità andrà in pensione, avendo lavorato poco o senza avere mai lavorato.

Per quanto riguarda lo scenario utopico, va osservato che Moravec sembra avere un'enorme fiducia nella possibilità del popolo di fare valere le proprie ragioni e i propri interessi attraverso gli strumenti della democrazia. A noi pare invece più feconda l'idea di un futuro non necessariamente così univoco, considerando che anche presente e passato non hanno un'unica faccia. In altre parole, ci pare più probabile uno scenario intermedio tra quello utopico e quello distopico, con variazioni di grado da paese a paese, da popolo a popolo, proprio a seconda della consapevolezza politica, del livello di istruzione, del grado di democrazia nella costituzione formale e sostanziale. Proprio per questo è giusto interrogarsi anche sulla dimensione sociotecnica dell'automazione, ovvero sulle politiche economiche in atto nel presente. Queste giocheranno un ruolo importante, nel generare il futuro. Detto ancora più chiaramente, al contrario di quello che sembrano postulare molti futurologi nelle loro analisi, non a tutti toccherà lo stesso futuro.

Parte II: Analisi sociotecnica

2.1. La strategia decrescista

Veniamo ora alla valutazione tecnica delle politiche industriali o a-industriali, in atto o proposte. Le soluzioni proposte per ovviare all'evaporazione dell'elemento umano dal mondo del lavoro sono di diverso tipo. Di fronte alla prospettiva di una "apocalisse tecnologica", non pochi sono oggi tentati dall'idea dalla soluzione del ritorno al passato. Sempre più cittadini sembrano affascinati dalla prospettiva della decrescita tecnologico-industriale – e non solo tecnofobi viscerali come Massimo Fini o Ted Kaczynski. Dunque, pare doveroso discutere anche quest'idea, nonostante la messa al bando dell'intelligenza artificiale non sia al momento contemplata da alcuna agenda politica. I sostenitori di questa posizione sono stati variamente definiti: luddisti, primitivisti, passatisti, retrogradi, reazionari, bioconservatori, ecologisti radicali, ecc. Poiché l'idea trova consensi a destra come a sinistra, anche se per lo più in forze non rappresentate in Parlamento, ci risolviamo di denominare i suoi sostenitori "decrescisti" – termine che non ha ancora connotazioni politiche forti e dunque si presta ad essere usato in senso tecnico. Chiameremo, per simmetria, "crescisti" i sostenitori della crescita (scientifica, tecnologica, industriale, economica) ad oltranza.

Va innanzitutto evidenziato che l'idea decrescista è piuttosto semplice e immediata. Nella sua formulazione più minimale, non richiede un particolare sforzo intellettivo, particolari competenze, ma piuttosto una reazione istintiva: «Se la tecnologia non è buona, vietiamola!». Il messaggio è semplice, chiaro, limpido. Perciò, riscuote un certo successo a livello mediatico. Un'analisi appena più accurata mostra però che la rinuncia alle tecnologie basate sull'intelligenza artificiale comporta rischi non inferiori a quelli di una diffusione delle stesse in un quadro liberista. Infatti, una politica decrescista, ossia volta a mantenere o ripristinare sistemi di produzione obsoleti, non consentirebbe al paese che l'adottasse di reggere il confronto con gli altri paesi, in una economia globale. A livello di qualità e prezzo, le merci prodotte artigianalmente non reggerebbero la concorrenza di quelle prodotte da un sistema misto umano-robotico o addirittura interamente robotizzato. Dunque, in seguito al bando dell'IA, la disoccupazione non sarebbe nemmeno riassorbita nel breve periodo. Non solo non cesserebbe, ma probabilmente aumenterebbe per via del peggioramento di altri parametri economici e della bancarotta di molte aziende.

Naturalmente, i decrescisti non sono tutti sprovveduti, per cui possiamo aspettarci una seconda misura da attuarsi in contemporanea con la messa al bando dell'IA: l'autarchia economica. Non a caso i decrescisti sono in genere anche no-global. Se si esce dal mercato globale, non ci sarebbe più concorrenza tra merci e servizi di produzione interna ed estera e si potrebbe salvare il livello occupazionale. Il ragionamento posto in questi termini sembra dunque più sensato, ma ci sarebbe comunque un conto salato da pagare. L'uscita dall'economia globale, la chiusura delle frontiere, l'imposizione di dazi sull'importazione, salverebbe la situazione nel breve periodo, creando una sorta di enclave economica povera ma autosufficiente. Nel medio termine l'economia sarebbe però continuamente minacciata dal mercato nero di prodotti tecnologicamente avanzati provenienti dall'esterno. Una repressione poliziesca o militare, nei confronti delle mafie interne che fanno gli interessi propri e delle corporazioni estere, attraverso il contrabbando, si renderebbe necessaria. La repressione potrebbe però convincere le stesse mafie, o governi stranieri al servizio delle corporazioni, a fomentare rivolte all'interno del sistema autarchico. In altre parole, un sistema insieme autarchico e decrescista – data la propria debolezza tecnologica – si esporrebbe al pericolo di essere spazzato via in qualsiasi momento da sistemi tecnologicamente più avanzati, attraverso guerre convenzionali o non convenzionali. Questo è uno scenario che deve essere tenuto in considerazione, a meno che non si nutra una fiducia incondizionata nell'essere umano e lo si concepisca come capace soltanto di intenzioni benevolenti, altruistiche, ireniche e disinteressate (ma i fatti storici sembrano contraddire questa pia illusione).

La terza mossa di un partito decrescista, per evitare di avere questa spada di Damocle sulla testa, potrebbe essere quella di concepire il bando come globale, in una società globale, governata da un governo decrescista globale. Si tratta di una visione chiaramente utopica, perché non basterebbe un accordo tra Stati sovrani. Sarebbero sufficienti alcuni Stati dissidenti orientati alla crescita per vanificare il tentativo. Ci vorrebbe un impero mondiale decrescista. Ma un impero lo può costruire soltanto un'entità regionale più potente di tutte le altre e pare del tutto improbabile che possa realizzare questa impresa chi rinuncia per principio alle tecnologie più rivoluzionarie e potenti. Si dice spesso che le idee fantascientifiche sono appannaggio dei futurologi tecnofili, ma in realtà non c'è nulla di più "fantascientifico" dell'idea di un bando globale delle tecnologie avanzate. Vogliamo però continuare a discutere l'ipotesi for the sake of discussion.

Supponiamo allora che, per una sorta di miracolo, qualcosa di simile venga in esistenza (magari in ragione dell'egemonia mondiale di una religione decrescista). Ora la domanda è: quanto può durare? Questo regime poliziesco mondiale dovrebbe cancellare non solo computer e robot, ma anche tutta la scienza che permette di realizzare queste macchine, ossia il know how. I decrescisti dovrebbero distruggere università e biblioteche, bruciare libri e riviste, distruggere banche dati, arrestare o eliminare fisicamente i milioni di scienziati e ingegneri che potrebbero rivitalizzare l'intelligenza artificiale, nonché tutti i cittadini crescisti che potrebbero fiancheggiarli. Se qualcosa sfuggisse alla polizia del pensiero decrescista, o se a "purificazione" effettuata, un giorno, nascessero bambini curiosi e creativi capaci di rivitalizzare la scienza, si sarebbe punto a capo. Nascerebbe un movimento crescista clandestino e un mercato nero. Lo stato poliziesco decrescista si troverebbe a combattere con strumenti tecnicamente obsoleti contro gruppi di guerriglieri dissidenti ipertecnologici. Non è difficile pensare che prima o poi il sistema sarebbe sconfitto da questi gruppi.

Slogan come «il mondo deve andare avanti» o «non si può fermare il futuro» hanno ben più di una valenza retorica. C'è un meccanismo sociale, un social constraint fondato sulla combinazione di due elementi, che non consente l'arresto definitivo della crescita, del progresso. I due elementi sono la volontà di potenza – una forza che muove la storia umana o, nel senso in cui la intende Friedrich Nietzsche, la stessa vita dell'universo – insieme alla semplice constatazione di fatto baconiana che la tecnologia è potenza (scientia potentia est). Sicché, i decrescisti possono ottenere vittorie anche importanti, ma sempre temporanee. Questo è accaduto per esempio quando il giudeo-cristianesimo ha abbattuto – con la complicità di altri eventi catastrofici come invasioni, catastrofi naturali ed epidemie – la millenaria civiltà greco-romana. Tuttavia, è bastato lasciare in giro qualcosa di quella grande civiltà filosofica, scientifica, artistica, tecnologica, commerciale e militare, perché le spore si riattivassero e la rigenerassero in forme nuove, nonostante tutto il rigore e la meticolosità dei tribunali dell'Inquisizione 31 .

Dunque, si deve convenire che la soluzione decrescista, oltre ad essere inefficace e rischiosa, nelle sue forme più estreme sembra essere oltretutto impraticabile. Non è un caso che i governi del mondo avanzato abbiamo finora cercato di ovviare ai problemi della disoccupazione tecnologica con tutti i mezzi fuorché uno: la messa al bando delle nuove tecnologie.

2.2. La strategia crescista a-tecnologica

Se veniamo infatti ai programmi dei partiti rappresentati in Parlamento, siano essi di governo o di opposizione, scopriamo che sono più o meno tutti favorevoli alla crescita. È raro trovare un parlamentare che faccia della decrescita economica la propria bandiera. Al limite troviamo qualcuno che, per strizzare l'occhio ai decrescisti, parla di "crescita sostenibile". O magari qualcuno che provoca la decrescita, ma per incapacità, corruzione o miopia, non certo per ragioni ideali. Inoltre, non troviamo nessuno che auspichi disordine, conflitti sociali, alti tassi di disoccupazione e criminalità permanente. Le società ideali delle diverse forze politiche differiscono in taluni aspetti essenziali (c'è chi la sogna cristiana e chi laica, chi la sogna egualitaria e chi meritocratica, ecc.), ma per quanto riguarda la crescita e l'occupazione – almeno a parole – sono tutti d'accordo 32 . Il problema è che l'attuale leadership politica italiana sembra supporre che la crescita non abbia un legame causale con lo sviluppo tecnologico, dato che questo fattore viene costantemente dimenticato nelle analisi. Perciò, pare lecito parlare di strategia crescista a-tecnologica.

Chiediamoci dunque se le politiche a-tecnologiche attuate dagli ultimi governi sono effettivamente razionali, ovvero permettono di raggiungere lo scopo (crescita e occupazione), data la situazione descritta in questo articolo. Tutto fa pensare il contrario, visto che negli ultimi 10 anni la nostra crescita complessiva è stata solo del 2,43%. Il che significa che nella classifica mondiale, su 180 paesi, siamo al 179 posto, seguiti solo da Haiti (che tra l'altro ha dovuto scontare un disastroso terremoto) 33 . Siamo praticamente fermi. I due postulati base di questa strategia sembrano essere l'immutabilità del sistema e l'insignificanza della variabile tecnologica – ovvero l'invarianza del modo di produzione. Così, la soluzione a qualsiasi problema contingente è innanzitutto concepita come mettere una pezza (pos- sibilmente a basso costo) per mantenere il sistema in piedi, nel breve periodo – scaricando problemi aggravati sulle generazioni future.

Questo risulta piuttosto evidente in riferimento alle politiche dello sviluppo e alle politiche previdenziali. Per quanto riguarda lo sviluppo, non ci dilungheremo molto. Sono decenni che i leader politici italiani parlano della necessità di dare impulso alla ricerca scientifica, ma le parole restano sempre e soltanto parole. In realtà l'investimento nella ricerca, sia da parte dello Stato che dei privati, è ai minimi termini 34 . Così, capita che un paese del gruppo di testa tra le economie avanzate (del G7, del G8, o del G20) non abbia una sola fabbrica di computer o telefonini – per dire due prodotti traino della nuova fase economica. Il risultato non è certo un rallentamento dello sviluppo tecnologico, dato che la tecnologia si può anche importare. Piuttosto, il risultato è che non si dà impulso a quel settore che potrebbe riassorbire almeno in parte la disoccupazione tecnologica.

Per quanto riguarda le politiche previdenziali, da alcuni decenni, si tiene in piedi un sistema ormai scricchiolante con due rimedi: massiccia immigrazione dai paesi più arretrati e aumento dell'età pensionistica. Il primo rimedio presume che in Italia ci sia lavoro in abbondanza, il secondo invece riduce i posti di lavoro – dunque già di primo acchito appare come una politica schizofrenica. Ma tale politica è davvero frutto di un piano messo nero su bianco dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ora diretto da Maurizio Sacconi. Leggendo un documento della Direzione generale del 23 febbraio 2011 intitolato "L'immigrazione per lavoro in Italia", scopriamo che il governo italiano sente la necessità di aumentare il flusso di immigrati: «Nel periodo 2011-2015 il fabbisogno medio annuo dovrebbe essere pari a circa 100mila, mentre nel periodo 2016-2020 dovrebbe portarsi a 260mila» 35 . Dunque, nei prossimi dieci anni avremo bisogno di "importare" un milione e ottocentomila lavoratori, che si aggiungerebbero ai quattro milioni e duecentomila già residenti (dati Istat) 36 . La conclusione che serviranno sei milioni di immigrati tra dieci anni deriva dalla seguente analisi: «Il fabbisogno di manodopera è legato contemporaneamente alla domanda e all'offerta di lavoro. Dal lato dell'offerta si prevede tra il 2010 e il 2020 una diminuzione della popolazione in età attiva (occupati più disoccupati) tra il 5,5% e il 7,9%: dai 24 milioni e 970mila del 2010 si scenderebbe a un valore compreso tra i 23 milioni e 593mila e i 23 milioni circa nel 2020. Dal lato della domanda, gli occupati crescerebbero in 10 anni a un tasso compreso tra lo 0,2% e lo 0,9%, arrivando nel 2020 a quota 23 milioni e 257mila nel primo caso e a 24 milioni e 902mila nel secondo».

Dov'è l‟errore? Tanto per cominciare, non si tiene affatto in conto che non siamo ancora usciti dalla crisi e che troppe aziende italiane, quando non delocalizzano, chiudono 37 . Tra l'altro, ora minacciano di trasferire la produzione all'estero anche aziende "storiche" come la Fiat. Il tutto mentre continua la fuga di cervelli. Né è tutto. Se è vero quanto abbiamo visto riguardo al futuro dell'automazione, l'errore nel calcolo della domanda è macroscopico. Non si può fare la stima dell'occupazione sulla base di un presunto aumento della produzione che, tra l'altro, non mette sul piatto della bilancia un possibile aumento della produttività dovuto all'automazione. È troppo pretendere dal ministro del lavoro che sappia cos'è l'intelligenza artificiale? Quando anche le badanti e i muratori verranno sostituiti da robot, che ne sarà dei sei milioni di immigrati che nessuno ha veramente cercato di integrare, ma li si è concepiti appunto come tappabuchi per fare quadrare i conti della previdenza? Che faranno sei milioni di persone – con lingue, religioni e costumi diversi – quando rimarranno senza casa e senza lavoro e, non essendo nemmeno cittadini, saranno esclusi dai diritti politici e da molte forme di assistenza? Ci si è mai chiesti se in questi sei milioni c'è una proporzione tra uomini e donne (il minimo che richiede la natura, per favorire un'integrazione)? Ci si è mai chiesti che competenze abbiano? Se possono essere adibiti ai lavori del futuro? Che sentimenti nutrono nei confronti degli Italiani, degli Europei?

Naturalmente, per questa politica miope non si può di certo biasimare solo il governo di centrodestra, dato che si tratta di una visione bipartisan, dove anzi certa sinistra chiuderebbe un occhio persino sull'immigrazione clandestina – e dunque non censita e nemmeno finalizzata a tappare le falle del "sistema Italia". Di fronte al documento del governo gongolano poi anche i cattolici. Andrea Olivero, presidente nazionale delle Acli, le Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani, si è affrettato a dire che «Questi dati smascherano la demagogia di chi continua a ripetere che gli immigrati sono una minaccia. Senza di loro il Paese imploderebbe e accoglierli civilmente non è solo atto umanitario, ma intelligente strategia per il futuro. (...) Ci fa piacere che il ministero del Lavoro guardi ai dati con realismo, perché soltanto in questo modo sarà possibile avviare finalmente quel governo del fenomeno immigrazione che è mancato in questi anni, dominati da un‟ottusa logica di mero contenimento, che peraltro è fallita».

Un'intelligente strategia per il futuro? Se Olivero leggesse le analisi di scenario di futurologi come Hans Moravec, Ray Kurzweil, Ian Pearson, Max More, Eric Drexler, ecc., forse cambierebbe idea sul futuro. Ma senza andare troppo lontano, basterebbe familiarizzarsi con la legge di Moo- re, i ritmi di sviluppo dell'intelligenza artificiale, le prospettive della robotica e della nanotecnologia, per capire che non serviranno molte braccia e forse neppure molti cervelli per mantenere o aumentare il livello di produzione.

Questa programmazione "a spanne" lascia dunque un po' perplessi. Se questa è la visione del futuro della classe dirigente, dobbiamo probabilmente aspettarci il primo scenario catastrofico prospettato da Moravec. Anzi, forse qualcosa di peggio. Di certo non assisteremo alla pacifica estinzione per inedia degli esseri umani sostituiti dall'IA nel processo produttivo. Prima che questo accada, scoppierà una rivolta. E qualcuno avrà anche il coraggio di stupirsi. Sul fatto che dobbiamo aspettarci tensioni sociali si dice d'accordo anche Gallino. Alla domanda se prevede conflitti in futuro, risponde così:

Certamente sì, anche conflitti variamente incrociati. Per intanto, il conflitto a cui stiamo assistendo, è il conflitto dovuto a crescenti diseguaglianze. In tutti i paesi industriali, compreso il nostro (e il nostro ancora in misura più limitata di altri) lo sviluppo tecnologico degli ultimi 20 o 30 anni, ha voluto dire un fortissimo incremento delle disuguaglianze tra il quinto che guadagna meno e il quinto che guadagna di più delle forze lavoro. Se poi si prendono delle percentuali più piccole, le differenze sono ancora più grandi, soprattutto negli Stati Uniti ma anche in paesi come la Gran Bretagna, come la Francia, come il nostro, ma perfino in Cina, dove le disuguaglianze sono cresciute moltissimo. Questo è un conflitto vecchio quanto il mondo, che però le tecnologie tendono ad accelerare ed inasprire. E poi vi sono conflitti legati, diciamo, più intrinsecamente alle tecnologie. Molte tecnologie migliorano la vita, permettono di lavorare meglio, meno faticosamente, molte tecnologie divertono, stimolano l'intelletto, permettono di fare cultura e così via. E allora la differenza che viene introdotta è tra chi può dominare queste tecnologie, che permettono di vivere meglio e chi, invece non è in grado di utilizzarle adeguatamente, vuoi per ragioni economiche e vuoi per ragioni culturali o magari politiche. Teniamo presente che in parecchi stati del mondo le nuove tecnologie sono oggetto di censura, limitazione, controllo poliziesco e simili. Quindi uno dei grandi conflitti del prossimo futuro sarà tra chi è pienamente cittadino, pienamente partecipe della cittadella tecnologica e chi invece deve accamparsi sotto le sue mura.

Il conflitto tra i proprietari dei robot (i nuovi mezzi di produzione) e i disoccupati espulsi dal processo produttivo (il nuovo proletariato) si affaccia minaccioso all'orizzonte, inasprito anche da miopi politiche dell'immigrazione. Già un tasso di disoccupazione intorno al 10-12 percento crea tensioni sociali e genera crimine. Figuriamoci se salisse al 50% o a percentuali ancora superiori.

2.3. La strategia crescista tecnologica

C'è una via d'uscita? Non resta che analizzare la strada indicata da Moravec (che poi accredita a James Albus, ma si tratta in fondo di una scoperta multipla) e vedere se, così com'è o con qualche aggiuntivo accorgimento, può consentire di raggiungere lo scopo: il binomio crescita più occupazione. Abbiamo visto che, secondo questa strategia la strada obbligata è continuare fino in fondo con la politica della riduzione graduale degli orari di lavoro, ma avendo l'accortezza di preservare il potere di acquisto degli umani attraverso una redistribuzione di reddito attraverso la tassazione o una distribuzione di profitto basata sull'assegnazione di azioni proprietarie. In ogni caso, gli umani vengono estromessi quasi completamente dal loop produttivo. In fondo, nelle società pre-industriali erano più i giorni di festa dei giorni lavorativi. Non c'è ragione per cui una società tecnologicamente avanzata dovrebbe forzare i cittadini a lavorare più dei loro antenati, quando potrebbero lavorare molto meno (purtroppo sono pochi coloro che si accorgono dell'irrazionalità della nostra attuale situazione). Tra l'altro, questa politica consentirebbe anche ai lavoratori di avere più tempo libero per accudire i bambini, gli anziani, e i disabili, riducendo il fabbisogno di lavoratori immigrati o robot adibiti a queste mansioni "affettive".

Una prima incognita sarebbe la reazione delle imprese, dato che esse – per ovvie ragioni – chiedono piuttosto di aumentare l'orario di impiego dei lavoratori e minacciano di andarsene se non accontentate. Si badi però che il problema è generato dalla globalizzazione dei mercati che rende semplice e vantaggiosa la delocalizzazione. In passato (non molti anni fa), questa minaccia aveva un peso minore, perché c'erano dazi sulle importazioni. Non è una novità che la razionalità del privato a livello micro sia in conflitto con i suoi stessi interessi a livello macro. Ogni azienda ha interesse ad avere il numero minimo di lavoratori, il minimo salario possibile e la più alta produttività. Ma se tutte le aziende avessero quello che vogliono, in un sistema chiuso, non ci sarebbero consumatori, e dunque gli stessi privati non potrebbero vendere ciò che producono. Perciò, i capitalisti hanno recentemente visto una via d'uscita nel "sistema aperto", nel mercato globale. Ma anche questo, col tempo, diventerà un sistema chiuso, con la differenza che non avrà regolatori. Negli Stati-nazione sono sempre stati i governi a risolvere le contraddizioni tra la razionalità micro delle imprese e quella macro dei sistemi economici, mediando tra imprese e sindacati, o regolamentando d'imperio il mercato del lavoro. Ma l'economia globale non ha un governo. Se non si darà un governo, al crescere delle tensioni a livello locale, ai sistemi nazionali non resterà altra via d'uscita che uscire dall'economia globale.

Infatti, non è difficile prevedere che – se si dovesse arrivare alla situazione assurda di un progresso tecnico che genera fame, invece di ricchezza – uno ad uno i paesi si ritirerebbero dal mercato globale per salvare i livelli occupazionali. È vero che imporre alle proprie aziende un uso ridotto della forza lavoro a parità di salari potrebbe convincerle a delocalizzare la produzione, ma la situazione sarà diversa rispetto ad oggi: intanto nel futuro impiegheranno quasi unicamente macchine e non umani, dunque non avrebbero (come invece oggi ha la Fiat) alcun potere di ricatto sul governo e sui cittadini; inoltre non potrebbero più vendere i prodotti sul mercato nazionale per via dell'imposizione dei dazi; infine, dovrebbero trasferirsi in paesi più turbolenti, alle prese con disoccupazione cronica e criminalità dilagante. Avrebbero perciò tutto da perdere.

Dunque, se l'autarchia è un fattore di debolezza per un paese decrescista, non sarebbe tale per un paese tecnologicamente avanzato che disponesse di sufficienti fonti di energia 38 e di fattori endogeni di sviluppo tecnologico (cervelli e istituzioni scientifiche all'altezza). Uno stato autarchico iper-tecnologico potrebbe mantenere l'ordine interno attraverso la redistribuzione dei profitti e la contestuale riduzione degli orari di lavoro, ponendo come ideale asintotico una società in cui le macchine lavorano per gli esseri umani e questi ultimi si dedicano ad attività ricreazionali o più elevate, come lo studio e la produzione delle scienze e delle arti.

Una seconda incognita è legata alla reazione della gente che ancora lavora – chiamiamoli gli "insostituibili" – nel vedere una massa di gente pagata per divertirsi e consumare. Moravec è ovviamente entusiasta dei robot che progetta ed è convinto che ogni lavoro sarà alla loro portata. Ma sembra più ragionevole pensare che, anche se ogni lavoro in se stesso sarà svolto da una macchina intelligente (operazioni chirurgiche, riparazioni, lavori artigianali, ecc.), ci debba sempre essere un umano nel loop con funzioni di supervisore. Fosse anche solo per fare da manutentore della macchina, o della macchina che fa la manutenzione della macchina, o per raccogliere dati sul comportamento delle macchine (un lavoro di "spionaggio", al fine di prevenire effetti collaterali imprevisti), qualcuno dovrà esserci. Anche quando i treni, gli aerei, i taxi saranno in grado di muoversi autonomamente, gli utenti – per ragioni psicologiche – vorranno pensare che qualcuno sta controllando, quand'anche a distanza, se tutto va per il meglio. Per quanto pochi questi lavoratori possano essere, perché dovrebbero lavorare quando potrebbero non farlo? La difficoltà è però facilmente superabile. Il reddito base di cittadinanza non è psicologicamente difficile da accettare, se si pensa che già oggi ci sono milioni di persone che vivono di rendita, traendo profitto dal lavoro dei padri o dei nonni. Si tratta solo di convincersi che tutti hanno diritto di vivere di rendita. I lavoratori potrebbero ottenere un salario aggiuntivo al reddito di cittadinanza, il che darebbe loro uno status sociale superiore in cambio dell'impegno. Oppure, le società del futuro – anche per mantenere un senso della comunità – potrebbero istituire un servizio civile o militare obbligatorio permanente che impegna tutti i cittadini, per qualche ora alla settimana, a svolgere queste funzioni di controllo e supervisione.

Tra l'altro, è molto probabile che prima o dopo tutti gli Stati sarebbero costretti ad ovviare alla disoccupazione tecnologica allo stesso modo e, in presenza di rinnovate condizioni globali omogenee, le frontiere potrebbero essere di nuovo aperte – per favorire infine la libera circolazione di merci, umani e automi. Alla fine, per il continuo sviluppo delle comunicazioni e dei trasporti, il mondo si fa sempre più piccolo e le frontiere diventano sempre più anacronistiche. Dunque, l'autarchia potrebbe ridursi ad una fase dolorosa ma necessaria per superare le resistenze del capitale alla regolazione globale. E alla fine del processo avremmo davvero liberato l'uomo – a questo punto oltreuomo – dal lavoro e dallo scambio organico con la natura.

Conclusioni: un giudizio di valore

In queste conclusioni, lascio i panni del sociologo e vesto quelli del cittadino, per concedermi un giudizio di valore. Abbiamo visto che le questioni sociali che nascono dalla crescente robotizzazione dell'industria e dalla diffusione dell'intelligenza artificiale nel tessuto sociale, sono in parte assimilabili a quelle che accompagnarono la meccanizzazione delle fabbriche durante la rivoluzione industriale, e in parte del tutto nuove. In entrambi i casi il processo avviene, per lo più, nel quadro di una economia capitalistica. Proprio per questo la valutazione complessiva del processo non può essere univoca, ma dipende dalla collocazione nella stratificazione sociale del soggetto valutante e dagli interessi propri di questo soggetto. Detto in termini più semplici, la robotizzazione non è buona o cattiva in sé, ma è buona per certe classi o categorie sociali e cattiva per altre, a seconda degli effetti concreti che provoca nelle vite delle persone. Gli effetti sarebbero gli stessi per tutta la popolazione, e di conseguenza potremmo darne una valutazione univoca, soltanto in un quadro di assoluta eguaglianza socioeconomica. In tale ipotetico (o utopistico) quadro, non esiteremmo a dire che gli effetti della robotizzazione sarebbero nel complesso positivi. I computer e i robot sono in grado di sostituire gli esseri umani in mansioni ripetitive o pericolose. Inoltre, consentono una produzione di oggetti di consumo più rapida e a minor costo, avvantaggiando così i consumatori. Anche la qualità del prodotto aumenta, per via della maggiore precisione delle macchine.

Tuttavia, poiché le società contemporanee sono fortemente stratificate, e alcune – in particolare quella italiana – presentano una struttura di classe piuttosto rigida, con scarse possibilità di ascesa o discesa, non si può prescindere da una valutazione degli effetti negativi che una robotizzazione non accompagnata da riforme sociali strutturali produce su certe classi sociali. Abbiamo visto che si registra da tempo un calo dell'occupazione nelle industrie robotizzate. Il che non sarebbe in sé un problema, se l'eccedenza di manodopera venisse riassorbita stabilmente in altri settori economici, in particolare i famosi "servizi". Il problema è che questo nebuloso settore, che include ricchi notai e camerieri, avvocati benestanti e pony express, è caratterizzato da una forte precarizzazione delle categorie più deboli. Se l'operaio di una grande azienda poteva in passato contare sulla stabilità della propria occupazione, il lavoratore del terziario che non appartiene ad una categoria "borghese" e corporativa, guadagna meno ed ha più incertezze rispetto al vecchio operaio di fabbrica. E l'incertezza si trasmette anche all'interno delle fabbriche proprio perché la progressiva robotizzazione continua a spostare la manodopera dal settore industriale a quello dei servizi, se non alla disoccupazione.

La prospettiva crescista tecnologica ci pare quella più convincente sul piano tecnico, ma anche sul piano dei fini, proprio perché si pone il problema di diffondere capillarmente il vantaggio dell'automazione. Certo, non possiamo dire che si tratti di uno sviluppo "necessario" – dato che non si può parlare di necessità in un sistema in cui giocano un ruolo anche la volontà, gli errori, l'irrazionalità umana. In fondo, potrebbe vincere il partito decrescista, con la conseguenza che si verificherebbe effettivamente un arresto (seppur temporaneo) dello sviluppo. Oppure, potrebbe restare in sella il fronte della crescita a-tecnologica e, pur volendo lo sviluppo, non riuscirebbe ad ottenerlo, precipitando la società nel caos.

Se però dovesse spuntarla la strategia crescista tecnologica, magari proprio il modello di sviluppo Moravec-Albus, ritengo che l'esito finale – oltre che realistico – sarebbe anche giusto. Per motivare questo giudizio di valore, riprendo le mie stesse parole, pubblicate dalla rivista Mondoperaio alcuni anni orsono, per evidenziare la base etica dell'abolizione del lavoro: «La maggior parte dei lavori, anche di concetto, sarà presto alla portata di una macchina, quand'anche priva di coscienza o di emozioni (eventualità che, comunque, non può nemmeno essere esclusa). Se nessuna azienda troverà conveniente assumere un essere umano, perché sostituibile da un robot che lavora intelligentemente senza pause per il solo costo dell'energia, si dovrà pensare ad un assetto sociale diverso che possa anche implicare l'abolizione del lavoro. I cittadini potrebbero ottenere un reddito di esistenza [o di cittadinanza] ed essere pagati per consumare, piuttosto che per produrre. La soluzione sarebbe giustificata sul piano etico, perché scienza e tecnica sono prodotti collettivi, dovendo la propria esistenza allo sforzo congiunto di molte menti, operanti in luoghi e periodi storici diversi» 39 .

È il concetto di comunismo epistemico che ho sviscerato a fondo in Etica della scienza pura. Così, continuavo: «Un computer atomico prodotto, per esempio, da un'azienda giapponese, non sarebbe concepibile senza le idee di Democrito, di Galileo, di Leibniz e di altri pensatori. Inoltre la ricerca scientifica è spesso finanziata da denaro pubblico. Sarebbe ingiusto prelevare denaro dalle tasche dei lavoratori, per finanziare una ricerca il cui risultato finale è la loro marginalizzazione sociale» 40 .

Il carattere collettivo della tecnoscienza giustifica perciò ampiamente una politica solidale. È persino assurdo che, nonostante i progressi della tecnica, gli esseri umani siano ancora costretti a lavorare lo stesso numero di ore dei loro antenati e magari in condizioni di maggiore precarietà. Questo è un evidente difetto del sistema di produzione capitalistico che deve essere affrontato e corretto. Naturalmente, l'evoluzione dei robot è essa stessa un prodotto del capitalismo. Perciò, la redistribuzione deve essere concepita in modo tale da non mortificare gli spiriti creativi, che spesso trovano nel profitto una spinta alla ricerca. Come si suol dire, dobbiamo evitare la tentazione di buttare via il bambino con l'acqua sporca. Si tratta come sempre di trovare un punto di equilibrio tra l'atomismo individualistico, che produce progresso ma insieme ingiustizie, e il comunitarismo olistico, che produce giustizia sociale e solidarietà, ma è certamente più statico sul piano dello sviluppo tecno-scientifico.

Tra le tante ipotesi che abbiamo formulato in queste pagine, emerge soprattutto una certezza: la strada che prenderà il futuro dipende dalla nostra conoscenza e dal nostro impegno.

Note

  • 1 Uno scienziato sociale ricostruisce i fatti e svela certi meccanismi nascosti che mettono in relazione causale certe azioni e certe conseguenze, ma non si avventura nel dire cosa bisognerebbe fare sulla base di un codice etico. Altrimenti, si confonderebbe con il moralista. Ciononostante – e in questo consta la sociotecnica o ingegneria sociale – il sociologo può ancora valutare le linee d'azione da un punto di vista precipuamente tecnico: per esempio, può dire se il mezzo M, adottato dall'agente A, per raggiungere gli obiettivi O1, O2, O3... On, è adeguato o meno, alla luce della situazione S in cui si trova a decidere. In questo caso, la valutazione è tecnica, non morale, perché non concerne i fini. Per dirla con una metafora, il sociologo non dirà a un signore coniugato che dovrebbe offrire alla moglie una bottiglia di champagne, o al contrario che farebbe bene a risparmiare i soldi. Potrà però ancora valutare l'efficacia delle strategie di questo signore, quali che siano, sulla base della costatazione di fatto che "non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca". Del resto, questo è quello che fa anche il fisico quando usa la propria conoscenza per modificare la realtà, elaborando teorie utili alla costruzione di macchine. In questo caso, lo chiamiamo ingegnere, non certo moralista, anche se quello che fa ha ripercussioni sulla qualità della vita di tante persone.
  • 2 H. Moravec, "When will computer hardware match the human brain?", received Dec. 1997, www.transhumanist.com
  • 3 Cfr. R. Campa, "Considerazioni sulla terza rivoluzione industriale", Il pensiero Economico Moderno, Anno XXVII Luglio-settembre N. 3, Pisa 2007.
  • 4 Per "gradi di libertà" di un robot industriale si intende il numero degli assi di movimento (in altre parole, la quantità di movimenti singoli) che la macchina è in grado di compiere. Il grado di libertà va dai 3-4 dei robot più semplici, fino ai 9-10 gradi di quelli più complessi. Per avere un metro di paragone, si consideri che la mano umana ha 23 gradi di libertà.
  • 5 C. Martorella, "Shigoto. Lavoro, qualità totale e rivoluzione industriale giapponese", in nipponico.com, 8 dicembre 2002.
  • 6 Per esempio: A. Curami, R. Sala, Generalità sui robot industriali, Online: www.mecc.polimi.it
  • 7 L. Bignami, "Robot, la grande invasione", La Repubblica, 10 aprile 2007.
  • 8 www.unece.org
  • 9 Cfr. "Demografia d'Italia": it.wikipedia.org.
  • 10 M. Russo, E. Pirani, "Dinamica spaziale dell'occupazione dell'industria meccanica in Italia, 1951-2001", 2006: www.economia.unimore.it
  • 11 Cfr. L. Gallino, La scomparsa dell'Italia industriale, Einaudi, Torino 2003.
  • 12 M. Menghini, M. L. Travaglia, L'evoluzione dell'industria italiana. Peculiarità territoriali, Istituto Guglielmo Tagliacarne, 2006: www.tagliacarne.it
  • 13 Cfr. R. Campa, "Considerazioni sulla terza rivoluzione industriale", op. cit.
  • 14 L. Gallino, "Disoccupazione tecnologica: quanta e quale perdita di posti di lavoro può essere attribuita alle nuove tecnologie informatiche", Torino, 13-01-1999. www.mediamente.rai.it
  • 15 Lo ricorda anche Gallino: «Per evitare di ridurre le forze di lavoro e quindi di imboccare troppo rapidamente la strada della disoccupazione tecnologica, è stato inventato da più di un secolo lo strumento della riduzione degli orari di lavoro. Un tempo, all'inizio secolo, si lavorava 3000 ore l'anno, a metà del secolo circa 2500, e oggi la maggior parte dei lavoratori ha un orario medio annuo di 1600-1700 ore di lavoro. Questo è uno dei vantaggi della tecnologia, di poter mantenere occupate le persone riducendone la prestazione».
  • 16 Ivi.
  • 17 L. Gallino, Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione, Einaudi, Torino 1998.
  • 18 www.dinicola.it
  • 19 «Un paese che compra per la maggior parte una tecnologia progettata e sviluppata da altri, aumenta la produttività, vede quindi diminuire i posti di lavoro, ma non li vede ricreati da quella tecnologia». L. Gallino, Se tre milioni vi sembran pochi, op. cit., p. 17.
  • 20 L. Bignami, "Robot, la grande invasione", op. cit.
  • 21 Ivi.
  • 22 Ivi.
  • 23 Ivi.
  • 24 Ivi.
  • 25 Ivi.
  • 26 Ivi.
  • 27 Ivi.
  • 28 H. Moravec, "The Age of Robots", June 1993. www.frc.ri.cmu.edu
  • 29 Scrive Moravec: «In the decades while the "bottom-up" evolution of robots is slowly transferring the perceptual and motor faculties of human beings into machinery, the conventional Artificial Intelligence industry will be perfecting the mechanization of reasoning. Since today's programs already match human beings in some areas, those of 40 years from now, running on computers a million times as fast as today's, should be quite superhuman». Ivi.
  • 30 John Horgan lo qualifica come un repubblicano "nel cuore", darwinista sociale e difensore del capitalismo, in The End of Science, Broadway Books, New York 1997: 255.
  • 31 Cfr. R. Campa, "Le radici pagane della rivoluzione biopolitica", in Divenire, vol. 4, Sestante, Bergamo 2010. Si veda anche L. Pellicani, Le radici pagane dell'Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.
  • 32 Persino coloro che vogliono abbattere il sistema liberalcapitalista (le forze politiche alle due estreme) e che perciò non escludono una fase di conflitto sociale, non sognano di certo un caos permanente, una società di precari, disoccupati, malati, poveri e criminali. Anch'essi vedono la propria società ideale come caratterizzata dall'appagamento dei bisogni materiali, dall'armonia spirituale e possibilmente decriminalizzata. Anzi, vogliono superare il capitalismo proprio perché, a loro avviso, non riesce a garantire tutto questo.
  • 33 Dati del Fondo Monetario Internazionale, rielaborati da El Pais del 24.10.2010: www.elpais.com
  • 34 Il rapporto Eurostat 2009 su scienza, tecnologia e innovazione in Europa è impietoso e ci colloca nelle ultime posizioni. Nel 2007, i 27 stati membri hanno investito complessivamente poco meno di 229 miliardi di euro, l'1,85 per cento del Pil Europeo. Nello stesso anno gli USA hanno raggiunto il 2,67% del PIL e il Giappone (nel 2006) il 3,40%. In Europa solo la Svezia e la Finlandia hanno speso più del 3% (rispettivamente il 3,60% e il 3,47%), poi ci sono 4 paesi (Danimarca, Germania, Francia e Austria) che superano il 2%. L'Italia investe poco: l'1,09 nel 2001 e l'1,13 nel 2006. Ma è il dato sull'occupazione quello che ci interessa maggiormente e i dati sono altrettanto scoraggianti. Secondo il rapporto, i ricercatori nell'UE rappresentano lo 0,9% dell'occupazione, mentre in Italia arrivano allo 0,6%. Cfr. epp.eurostat.ec.europa.eu
  • 35 Citato da: V. Polchi, "Il governo ora chiede più immigrati", La Repubblica, 11 marzo 2011
  • 36 «I cittadini stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2010 sono 4.235.059 pari al 7,0% del totale dei residenti. Al 1° gennaio 2009 essi rappresentavano il 6,5%. Nel corso dell‟anno 2009 il numero di stranieri è aumentato di 343.764 unità (+8,8%), un incremento ancora molto elevato, sebbene inferiore a quello dei due anni precedenti (494 mila nel 2007 e 459 mila nel 2008, rispettivamente +16,8% e +13,4%), principalmente per effetto della diminuzione degli ingressi dalla Romania». Cfr. "La popolazione straniera residente in Italia", Istat. www.istat.it
  • 37 Nel 2010, in Italia, sono state aperte oltre undicimila procedure d'insolvenza – circa trenta al giorno - con una crescita del 20% rispetto al 2009. Cfr. A. Geroni, "Trenta fallimenti al giorno", Il Sole24Ore, 09.03.2011.
  • 38 Per questo, avendo rinunciato definitivamente all'opzione nucleare con il referendum del giugno 2011, l'Italia dovrà almeno puntare strategicamente sull'eolico, il solare, la razionalizzazione dei consumi. Non può restare dipendente dagli idrocarburi.
  • 39 R. Campa, “Transumanesimo”, in Mondoperaio, Marzo-Aprile 2006.
  • 40 Ivi.

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