La scienza e la natura
Autore: Luciano Pellicani
da: Divenire 4, Attualità () | pdf | stampa
1 È universale opinione che ciò che ha conferito all’Occidente la sua specifica identità culturale, differenziandola profondamente da tutte le altre civiltà, è stata la rivoluzione scientifica. Questa è iniziata a partire dal momento in cui si è affermata l’idea secondo la quale il grande libro della Natura è scritto in caratteri matematici. Anticipata da Leonardo da Vinci 2 e formulata con la massima chiarezza da Galileo 3 , questa idea ha rappresentato una svolta di portata storica. Grazie ad essa, l’Occidente non solo ha potuto costruire il prodigioso edificio della conoscenza scientifica; ha anche istituzionalizzato un potentissimo metodo per manipolare i fenomeni naturali e assoggettarli alla volontà e ai bisogni dell’uomo 4 .
Suggestionato da una tachigrafica tesi di Max Weber – secondo la quale il “disincanto del mondo” sarebbe iniziato con il profetismo ebraico 5 –, Max Scheler ha perentoriamente affermato che «il monoteismo creazionistico giudaico-cristiano e la sua vittoria sulla religione e sulla metafisica del mondo antico fu senza dubbio la prima fondamentale possibilità per porre in libertà la ricerca sistematica della Natura. Fu un mettere in libertà la Natura per la scienza in un ordine di grandezza che forse oltrepassa tutto ciò che fino ad oggi è accaduto in Occidente. Il Dio spirituale di volontà e lavoro, il Creatore, che nessun Greco e nessun Romano, nessun Platone e nessun Aristotele conobbe, è stato la maggiore santificazione dell’idea del lavoro e del dominio sopra le cose infraumane; e nel medesimo tempo operò la più grande disanimazione, mortificazione e razionalizzazione della Natura, che abbia mai avuto luogo in rapporto alle culture asiatiche e dell’antichità»
6 .
Difficile condividere un simile punto di vista, una volta che si tenga presente che il primo disincanto del mondo – la nascita del logos nelle poleis della diaspora greca – si è verificato in un contesto culturale affatto estraneo alla tradizione giudaica 7 , così come fu affatto estranea alla tradizione giudaica la prima rivoluzione scientifica: quella che prese corpo nella civiltà ellenistica. Lucio Russo ha puntigliosamente documentato che nella città di Alessandria, durante il III secolo a.C., furono poste le basi della “scienza esatta”, vale a dire dell’insieme delle teorie che vengono definite mediante tre postulati. Il primo è che le affermazioni della teoria non riguardano gli oggetti del mondo reale, ma enti ideali. Il secondo, che la teoria ha una struttura rigorosamente deduttiva: essa è basata su pochi enunciati fondamentali (assiomi, postulati o principi), sugli enti della teoria e su un metodo unitario e universalmente accettato per dedurre un numero illimitato di conseguenze. Il terzo, che la teoria è applicabile al mondo reale mediante regole di corrispondenza fra gli enti ideali e gli oggetti concreti. Non avendo le regole di corrispondenza alcuna garanzia assoluta, il metodo per controllare la validità degli asserti teorici è quello sperimentale.
Questi i tratti essenziali della “scienza esatta” elaborata dalla civiltà ellenistica. La quale riuscì anche a mostrare che i modelli costruiti nel laboratorio ideale erano in grado di generare una tecnologia scientificamente orientata 8 . Sennonché, il nesso fra sviluppo scientifico e sviluppo tecnologico non fu percepito dalle élite intellettuali dell’impero romano. Queste, pur affascinate dalla cultura greca, fecero cadere nell’oblio l’intero patrimonio della scienza ellenistica. Ancora più estranea allo spirito scientifico si rivelò la forma mentis forgiata dai Padri della Chiesa, centrata sul contemptus mundi e, pertanto, totalmente indifferente al sapere scientifico e al suo fall-out tecnologico. E infatti, lungo tutto l’Alto Medioevo, nella cristianità occidentale, come in quella orientale, «la scienza risultò virtualmente estinta» 9 .
Del resto, come avrebbe potuto essere diversamente? Nella Bibbia il desiderio della conoscenza è vietato, poiché «l’uomo non è creato per una vita teoretica, conoscitiva, contemplativa: l’uomo è creato per una vita nell’obbedienza, come un bambino»
; di qui la condanna della «scienza profana» e delle arti mondane, a meno che «queste cose, originatesi dalla ribellione umana, vengano consacrate al servizio di Dio [...]. Il sapere umano, se consacrato al servizio di Dio, può essere un bene, ma, in assenza di tale dedizione, è ribellione. All’uomo l’intelletto è dato per comprendere i comandamenti di Dio. Se ne fosse privo non potrebbe obbedire liberamente. Ma, al contempo, questo stesso fatto permette all’uomo di emancipare la propria intelligenza dal servizio, dalla funzione servile per cui viene creata, e tale emancipazione dal punto di vista biblico è l’origine della filosofia o della scienza»
10 . In breve: la ragione autonoma, per la tradizione giudaico-cristiana, è una rivolta della creatura contro il Creatore: dunque, una potenza blasfema, quasi satanica 11 . Tant’è che, nella Genesi, «il diritto alla conoscenza si paga con la morte e la dannazione» 12 . Inoltre, contrariamente a quello che pensavamo Weber e Scheler, la Natura, per la Cristianità medievale, non era una realtà disanimata. Oltre ad essere popolata di demoni e streghe, era concepita come il teatro di miracoli e di prodigi, non già come una realtà governata da leggi necessarie e impersonali. Era – così l’ha definita Jacques Le Goff – «una costante ierofania» 13 . Per questo, le catastrofi naturali e le epidemie erano percepite come castighi di Dio. Il che, ovviamente, impedendo la ricerca razionale delle cause naturali, fu «un ostacolo epistemologico che per lungo tempo sarebbe risultato insormontabile» 14 . Di qui il fatto che fino a quando Gerusalemme – la cultura centrata sulla Rivelazione e sulla fede obbediente – conservò il suo predominio su Atene – la cultura della ragione che esplora la Natura per individuarne le leggi oggettive che regolano il suo modus operandi –, la “scienza profana” (la filosofia) fu condannata al ruolo di ancella della “scienza sacra” (la teologia) 15 . Di qui altresì il fatto che soltanto quando Atene prese a scalzare progressivamente Gerusalemme i fenomeni naturali cessarono di apparire pregni di significati morali e religiosi e diventarono oggetti di indagine razionale volta ad individuarne le cause.
La rivincita di Atene su Gerusalemme iniziò con il Rinascimento, il quale, nella misura in cui prese le distanze dall’ethos cristiano rivalutando il mondo e i valori mondani, creò il terreno di coltura di una “pianta sociale” di cui si erano perse le tracce: l’intellettuale laico. Questi «nacque in quanto rinacque il filosofo (o lo scienziato) antico» 16 ; nacque, in altre parole, perché riemerse – da quella che Leonardo Bruni chiamava la “notte oscura” del Medioevo – l’idea – per la prima volta proclamata dalla filosofia greca – che la conoscenza è tale solo in quanto è regolata dal principio dell’assoluta sovranità della ragione. Il che, poi, significa che la nuova visione della Natura si è affermata grazie a un lento processo di autonomizzazione del pensiero dalla autorità ecclesiastica – la Chiesa, custode esclusiva della Verità rivelata – e dalla Rivelazione biblica. Essa è stata la conseguenza di quel decisivo fenomeno storico – il Rinascimento – che Jules Michelet avrebbe descritto come «la riscoperta del mondo e dell’uomo» 17 : due cose – il saeculum e l’homo naturalis – che il cristianesimo aveva demonizzato. Una riscoperta che avrebbe portato a un completo e radicale sovvertimento del pensiero, il quale, dal punto di vista della Weltanschuung cristiana, non poteva non apparire come una blasfema rivincita del paganesimo 18 .
Durante il Medioevo, la realtà era pensata e vissuta come immediatamente religiosa. Ogni cosa – la famiglia, l’educazione, il sesso, il lavoro, la politica, ecc. – era regolata dal Sacro, gestito, in una situazione di monopolio, dalla Chiesa cattolica. Per contro, con il Rinascimento l’homo naturalis, dopo secoli di ibernazione, fu riattivato e posto al centro della realtà, talché la sfera del profano prese a dilatarsi a tutto detrimento della sfera del Sacro e, alla visione rigorosamente teo-centrica del mondo, fu contrapposta una visione altrettanto rigorosamente antropo-centrica. È appunto questa la cosa decisiva della rivoluzione culturale passata alla storia con il nome di Rinascimento: l’orgogliosa affermazione dell’autonomia e del valore intrinseco della humanitas, che la religione cristiana aveva concepita come subordinata alla divinitas 19 : una affermazione che avrebbe portato, per tappe successive, a una nuova concezione della Natura: la Natura come realtà completamente dis-animata, simile a una macchina. Infatti, il principio metodologico secondo il quale il grande libro della Natura è scritto con caratteri matematici ha avuto come conseguenza logica che «il qualitativo ha ceduto il passo al quantitativo»
20 e la ragione ha assunto i tratti della ratio, della ragione calcolatrice quale misura universale dei fenomeni naturali. Si è così verificato il passaggio «dal mondo del pressappoco al mondo della precisione»
21 . Non a caso, gli scienziati, a partire dal XVII secolo, di frequente utilizzarono la metafora dell’orologio per esprimere sinteticamente la nuova concezione della Natura: la Natura come «universo matematico» 22 . Il che fu, per la visione animistica della Natura – «la natura come l’effetto di una volontà» 23 –, un colpo mortale. Sparirono, progressivamente, i miracoli, i prodigi e – soprattutto – il telos, con l’ineludibile conseguenza che l’idea di Provvidenza fu cancellata dalla mappa cognitiva.
Mentre per la Weltanschauung giudaico-cristiana, che dominava gli spiriti prima della riattivazione dell’homo naturalis, «Dio regnava sul mondo» e «tutto concorreva a un medesimo fine» 24 , per la scienza moderna, nata dall’abolizione delle cause finali, la Natura è «priva di significato e di valore» 25 : una pura contingenza, in cui non è dato trovare traccia alcuna di quello che Bertrand Russell chiamava il Proposito Cosmico 26 . Ciò è tanto vero che uno dei massimi astronomi del nostro tempo – Steven Weinberg – è giunto alla conclusione che «quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo» 27 . Non diversa la conclusione cui è giunta la biologia, sintetizzata da Richard Dawkins con la formula: «L’evoluzione è cieca» 28 .
Lo sconvolgente novum generato dalla rivoluzione scientifica – la cancellazione delle cause finali, di cui Bacone aveva detto che erano sterili come una vergine 29 – ha significato l’impossibilità di leggere i fenomeni naturali con le categorie della teologia giudaico-cristiana. L’Antica Alleanza – l’alleanza animistica fra l’uomo e la Natura – è diventata impensabile poiché si è verificata «la dissociazione di Fisica ed Etica, di scienza e valore, …di conoscenza della realtà e attribuzione di senso alla nostra vita» 30 : una dissociazione che, sottolineando il fatto che «l’evoluzione dell’universo è sostanzialmente priva di significato», ha inferto un duro colpo all’amor proprio dell’uomo»
31 .
L’atteggiamento fondamentale dell’animismo consiste «nel proiettare nella Natura inanimata la coscienza che l’uomo possiede del funzionamento interamente teleonomico del proprio sistema nervoso. Si tratta, in altri termini, dell’ipotesi secondo cui i fenomeni naturali possono e devono essere interpretati in definitiva nello stesso modo, con le stese leggi, dell’attività umana soggettiva, cosciente e proiettiva» 32 . L’animismo, pertanto, stabilisce una profonda alleanza fra l’uomo e la Natura e, grazie ad essa, legge la realtà come teleologicamente orientata. Di qui la potente attrazione che esso ha sempre esercitato sugli spiriti: l’animismo, infatti, allontana dallo sguardo la spaventosa solitudine esistenziale alla quale l’uomo, gettato in una Natura del tutto indifferente ai suoi bisogni metafisici e morali, è condannato. Per contro, «la pietra angolare del metodo scientifico è il postulato dell’oggettività della Natura, vale a dire il rifiuto sistematico di considerare la possibilità di pervenire a una conoscenza vera mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali cioè di progetti» 33 . Di qui l’incompatibilità “fisiologica” fra i principi del razionalismo scientifico e la visione provvidenzialistica della realtà. Per la scienza, la Natura – ridotta a una macchina senza scopi – si presenta come un «ordine gratuito» 34 e la stessa idea di Dio, attorno a cui ruotava l’intera esistenza (individuale e collettiva) dell’Europa medievale, è eliminata come una «ipotesi superflua» 35 . Una catastrofe esistenziale – la «morte di Dio» – che avrebbe indotto Nietzsche a definire la scienza la «grande apportatrice di dolore» 36 . È vero che la rivincita di Atene su Gerusalemme ha reso possibile una spettacolare crescita della conoscenza dei fenomeni naturali, ma, contemporaneamente, la ragione illuministica, con il suo procedere senza riguardi per i fini ultimi, ha desacralizzato la Natura. Riducendola a «una infinita serie di equazioni» 37 – logica conseguenza dell’idea di fare della matematica lo strumento-principe della conoscenza –, l’ha svuotata di ogni significato religioso. Di qui il passaggio dalla coscienza incantata – la coscienza mitopoietica – alla coscienza disincantata : un passaggio epocale, il cui significato esistenziale è stato espresso da Max Weber con l’affermazione che l’uomo moderno – l’abitante della Città secolare, che si è cibato dei frutti dell’albero della conoscenza scientifica – doveva accettare virilmente di «vivere in un’epoca senza Dio e senza profeti» 39 .
Il nuovo e rivoluzionario modo di concepire la Natura – la Natura come una macchina il cui funzionamento dipende da leggi impersonali che la ragione ha il compito di individuare formulando ardite ipotesi e sottoponendole al controllo empirico – ha corroborato la previsione fatta da Bacone: ha inaugurato quella che è stata definita «l’età della tecnica» 40 . Certo, la tecnica è vecchia quanto l’uomo stesso, poiché «senza tecnica l’uomo non esisterebbe, né sarebbe esistito mai» 41 . Ma, grazie alla scienza moderna, è apparso un quid novi: lo sviluppo tecnologico: vale a dire la crescita esponenziale dell’attrezzatura tecnologica grazie alla quale si è verificato «l’irrompere della società artificiale» 42 . A un mondo statico – dominato dalla diffusa e tenace convinzione che tutto quello che si poteva inventare era già stato inventato –, si è sostituito un mondo iperdinamico, un mondo in continua trasformazione a motivo della accumulazione permanente di nuove e rivoluzionarie forze produttive 43 . E questa metamorfosi espansiva è emersa grazie a un inedito tipo di tecnologia: la tecnologia quale frutto della «nuova alleanza fra teoria e pratica della manipolazione e della trasformazione» , la tecnologia come fall-out del sapere operativo: il sapere che interviene sulla Natura, la manipola, la trasforma e la piega alle esigenze dell’uomo. In effetti, lo sviluppo delle scienze della Natura ha reso possibile la creazione di un formidabile apparato produttivo che, trasformandosi, trasforma continuamente la struttura del mondo della vita e le sue specifiche forme. Così la scienza – concepita come Herrschaftwissen 45 – è diventata l’elemento essenziale della civiltà moderna, ciò che la distingue da tutte le altre civiltà e la caratterizza in maniera così forte che, per definirla, è stata coniata l’espressione knowledge society 46 . Insomma, la conoscenza delle leggi della Natura si è trasformata in potere sulla Natura 47 . E si tratta di un potere in continua espansione, generato dalla istituzionalizzazione di quella che Alfred Whitehead ha chiamato l’arte dell’invenzione permanente 48 . La quale presenta una significativa “affinità elettiva” con lo specifico modus operandi del capitalismo. Infatti, «soltanto con il Capitale la Natura diventa un puro oggetto per l’uomo, un puro oggetto di utilità, e cessa di essere riconosciuta come forza per sé: e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome si presenta semplicemente come astuzia capace di subordinarla ai bisogni umani sia come oggetto di consumo sia come mezzo di produzione. In virtù di questa tendenza il Capitale spinge a superare sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della Natura, la soddisfazione tradizionale, orgogliosamente ristretta entro gli angusti limiti, dei bisogni esistenti, e la produzione del vecchio modo di vivere» 49 .
Signoreggiare la Natura: questo è stato – e continua ad essere – il grande progetto alloplastico della Modernità: un progetto che, partendo dall’idea che la Natura altro non è che una gigantesca macchina, è sfociato nella continua produzione di macchine. Di qui il fatto che la civiltà moderna è stata interpretata come il precipitato storico del «trionfo delle macchine» 50 . E le macchine, per funzionare, hanno bisogno di energia. La civiltà basata sulle macchine è, inevitabilmente, una civiltà dipendente dalla produzione di energia. E anche ciò è strettamente legato alla visione scientifica della Natura. La celebre formula di Einstein, E=mc2, esprime, per l’appunto, l’idea che la Natura è un deposito di energia potenziale che la tecnologia trasforma in energia attuale 51 . La tecnologia scientificamente orientata è essenzialmente produzione di macchine e di energia: due cose strettamente legate l’una all’altra. La tecnologia produce l’energia indispensabile per far funzionare le macchine e le macchine garantiscono il dominio dell’uomo sulla Natura. Ma si tratta di un dominio che contiene un paradosso: più l’umanità cerca di rendersi indipendente dalla Natura, assoggettandola ai propri disegni, più risulta essere dipendente dalla Natura, poiché solo dalla Natura si può estrarre l’energia indispensabile per la permanente alimentazione della macchina produttiva. Il che costituisce una puntuale conferma del principio così formulato da Hobbes: rendersi indipendente da una cosa significa, per l’uomo, rendersi dipendente da un’altra cosa 52 .
In effetti, la civiltà industriale, nata dalla creazione dell’apparato scientifico-tecnologico e dalla istituzionalizzazione dell’economia di mercato, risulta essere un sistema oltremodo vulnerabile. La sua esistenza dipende in sommo grado dalla capacità di estrarre, senza sosta, un gigantesco flusso di energia dalla Natura. Senza energia, tutto, in una civiltà delle macchine, si ferma: gli aerei, i treni, le auto, i televisori, i computer, le fabbriche, la distribuzione delle merci, l’erogazione dei servizi, ecc. In breve: la totalità della vita così come essa si è formata a seguito della rivoluzione permanente attivata dal capitalismo.
Ora, dal momento che il consumo di energia cresce smisuratamente ogni giorno con l’espansione della massa demografica e con l’industrializzazione dei Paesi del Terzo Mondo, è inevitabile che cresca contemporaneamente – e pericolosamente – l’alterazione dell’ecosistema nel quale il sistema industriale si muove. Ciò accade perché quasi tutte le forme di energia utilizzate per alimentare l’economia moderna sono inquinanti. La Terra è un sistema chiuso, sicché niente può uscirne. Tutti gli scarti – quale che sia la loro natura – devono finire da qualche parte. Questo fatto, unito alle risorse limitate disponibili, significa che «il riciclaggio dei materiali necessari per l’esistenza è una funzione essenziale di tutti gli ecosistemi e degli altri processi fisici e chimici che avvengono sulla Terra» . Se crescono i consumi, crescono contemporaneamente gli scarti; e questi, inevitabilmente, si accumulano fino a diventare un problema di enormi dimensioni. Non sorprende, pertanto, che, mentre in passato le scienze sociali esploravano l’influenza dell’habitat naturale sull’uomo e sulle istituzioni, oggi esse concentrano il fuoco dell’analisi sull’influenza, sempre più estesa e sempre più intensa, dell’uomo sulla Natura. Donde la nascita del “paradigma ecologico” 54 , centrato sulla presa d’atto del fenomeno della costante degradazione non-naturale della Natura: la degradazione causata dall’apparato scientifico-tecnologico creato dall’uomo per asservire la Natura ai suoi disegni. Si è così affermata l’idea secondo la quale la società globale dipende in maniera vitale dalla “salute” dell’ecosistema e che quest’ultimo è profondamente degradato dalla crescita ipertrofica dei consumi. Sicché la disorganizzazione della Natura – il suo crescente tasso di entropia causato da processi artificiali – oggi pone perentoriamente l’enorme problema della riorganizzazione delle società globale per evitare che la rivoluzione industriale risulti essere un processo autodistruttivo, un processo che, inquinando in modo irrimediabile l’ecosistema naturale, fagociti se stesso.
La presa di coscienza della degradazione artificiale della Natura ha prodotto una sterminata letteratura che sottolinea, spesso con accenti apocalittici, le conseguenze negative dello sviluppo scientifico-tecnologico. Per certi versi, il pessimismo di tale letteratura non costituisce una novità. La società industriale, sin dai sui primi vagiti, ha suscitato critiche e ostilità di varia natura e di varia provenienza 55 . Nuovo, però, è il paradigma che oggi è alla base della messa in stato d’accusa della civiltà tecnologica: il paradigma ecologico, per l’appunto, il quale ci ricorda che la vita umana è strettamente correlata alla vita del macrocosmo – la Natura – nel quale è inserita e che le generazioni presenti hanno una precisa e ineludibile responsabilità nei confronti delle generazioni future 56 . Ci ricorda, in altre parole, la complessa fragilità dell’Astronave Terra; e ci ricorda altresì che l’ottimismo del XIX secolo – tutto dominato dall’idea del carattere neces-sariamente progressista dello sviluppo storico – non ha più diritto di cittadinanza in un mondo che, a dispetto della crescente potenza dell’apparato scientifico-tecnologico, sembra essere fuori controllo.
Tutto ciò ha ridato fiato a una tradizione di pensiero visceralmente avversa alla civiltà industriale. Fra i più tipici rappresentanti di tale tradizione spicca John Zerzan, massimo teorico dell’anarchismo ontologico, che ha esercitato una influenza non piccola sul più radicale dei movimenti no global: quello dei Black Blocks. Egli propugna senza mezzi termini la fuoriuscita dalla civiltà e il ritorno all’età della pietra, quando non esistevano né la proprietà privata, né le classi, né, tanto meno, lo Stato con i suoi apparati coercitivi e l’uso sistematico della violenza. A suo avviso, prima dell’invenzione dell’agricoltura «la vita era fatta di ozio, intimità con la Natura, saggezza istintiva, uguaglianza fra i sessi e benessere» 57 . Non c’erano, naturalmente, classi e conflitti di classe: regnavano, sovrane, l’eguaglianza e la solidarietà. Erano, insomma, le società primitive, ciò che dai pensatori anarchici è sempre stato indicato come la meta cui l’umanità deve tendere: una fraterna comunità di liberi ed eguali. Ma, con l’invenzione e la diffusione dell’agricoltura, l’armonia delle società primitive è andata in frantumi e l’umanità ha imboccato la via della civiltà, vale a dire del lavoro costrittivo, della gerarchia sociale, della guerra, della schiavitù e della sistematica distruzione dell’habitat naturale. Non siamo molto lontani da Rousseau e dal mito del buon selvaggio, che vive in armonia con la Natura e con i suoi simili. Ma mentre Rousseau non si faceva soverchie illusioni circa la possibilità di restaurare l’età dell’innocenza Zerzan è dell’idea che la felicità perduta è a portata di mano: è sufficiente abolire la divisione del lavoro, l’agricoltura, l’industria, il commercio, le scienze e la tecnologia; breve: tutto ciò che definisce e caratterizza la civiltà moderna.
Ancora più radicale, se possibile, la posizione assunta dai biocentristi, come risulta dalle eloquenti parole pronunciate da un loro autorevole rappresentante, il biologo americano David M. Graber: «Noi non siamo interessati all’utilità che una particolare specie animale, un fiume o un ecosistema possono apportare all’umanità. Queste cose hanno un valore intrinseco, che a mio parere è superiore a quello di un solo uomo o di un miliardo di uomini. La felicità umana, e certamente la fecondità umana, non sono importanti quanto un pianeta sano e selvaggio. Secondo alcuni scienziati sociali, anche l’uomo farebbe parte della Natura, ma non è vero. A un certo momento – circa un milione o forse mezzo milione di anni fa – noi abbiamo rotto il contratto e ci siamo trasformati in un cancro. Siamo diventati una piaga di noi stessi e della Terra. È cosmicamente improbabile che il mondo sviluppato scelga di mettere fine al suo consumo di energie fossili, e che il Terzo Mondo ponga fine al consumo suicida del suo ambiente. Fino a quando l’Homo sapiens non deciderà di riconciliarsi con la Natura, alcuni di noi possono sperare solo nell’arrivo di un virus appropriato»
58 .
Chiaramente, il pathos esistenziale accanitamente ostile alla scienza e alla tecnologia è strettamente correlato allo struggimento romantico per un mondo “naturale” e “incontaminato”: uno struggimento che alimenta la nostalgia della purezza passata, l’attesa della purezza futura e la fobia per l’impurità presente. E alimenta altresì l’idea che l’unica via di uscita dall’impasse in cui oggi si trova l’umanità è l’abolizione di tutte le cose – istituzioni, pratiche, conoscenze, tecniche, ecc. – che, per generazioni e generazioni, sono state considerate vettori di progresso. Obbiettivo dichiarato: la restaurazione della Natura quale essa era prima che fosse contaminata dall’uomo.
Ora, che la rivoluzione industriale sia diventata un potente agente di inquinamento dell’habitat naturale è senz’altro vero; ma è altrettanto vero che solo grazie alla rivoluzione industriale sono state eliminati due dei più micidiali flagelli che hanno, regolarmente e spietatamente, colpito l’umanità prima della creazione dell’apparato scientifico-tecnologico: le carestie e le epidemie. Le carestie sono state debellate grazie alla prodigiosa crescita della produttività del lavoro umano: una crescita resa possibile dalla convergenza sinergica di tre fattori: il mercato, la scienza e la tecnologia 59 . Quanto all’inquinamento della Terra, esso non nasce certo con la società dei consumi. Ha una lunga storia. È iniziato con la domesticazione degli animali che ha generato «i peggiori killer dell’umanità nella nostra storia recente (vaiolo, influenza, tubercolosi, malaria, peste, morbillo e colera)»
60 . Per secoli e secoli – anzi, per millenni – gli uomini sono vissuti in condizioni igieniche spaventose e in un ambiente popolato da invisibili agenti portatori di morte. Il paradosso della rivoluzione industriale è che essa ha disinquinato inquinando: nello stesso momento in cui ha eliminato l’inquinamento tradizionale, ne ha creato uno di tipo nuovo. Di qui la sfida di fronte alla quale oggi si trovano le società industriali: mettere sotto controllo uno sviluppo – demografico, oltre che economico – che rischia – questa è la prognosi dei pessimisti 61 – di portare il sistema al collasso catastrofico. Una sfida che, certamente, non può essere vinta con le armi retoriche dell’ecologismo radicale 62 – il quale, nelle sue espressioni più estreme, sfocia nel nichilismo –, bensì con quelle della politica, della scienza e della tecnologia: le uniche risorse che possono correggere la rotta dell’Astronave Terra stabilendo un nuovo rapporto – o, quanto meno, un rapporto più equilibrato – fra l’uomo la Natura. Detto con le parole della Banca mondiale, «la soluzione non è produrre meno, ma produrre in modo diverso». E questo perché «senza un’adeguata protezione ambientale, la crescita economica risulta fragile, ma senza crescita economica non è possibile dedicarsi alla protezione ambientale» 63 .
Note
- 1 Originariamente apparso nel volume Idea di Natura. 13 scienziati a confronto, curato da Elio Cadelo, Venezia, 2008; ripubblicato per gentile concessione di Marsilio Editori.
- 2 Così suona il principio metodologico formulato da Leonardo:
«Nessuna certezza delle scienze è dove non si può applicare una delle scienze matematiche, ovvero che non sono unite con esse matematiche»
; citato da F. Capra, La scienza universale, Milano, Rizzoli, 2007, p. 269. - 3 Queste le celebri parole con le quali Galileo annunciò il suo rivoluzionario programma scientifico:
«La filosofìa è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intendere umanamente parola»
; Il saggiatore, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 38. - 4 Cfr. K. Mendelssohn, La scienza e il dominio dell’Occidente, Editori Riuniti, Roma 1981; I. B. Cohen, La rivoluzione nella scienza, Longanesi, Milano 1988; W. Heisenberg, Natura e fisica moderna, Garzanti, Milano 1960.
- 5 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo in Sociologia della religione, Comunità, Milano 1982, vol. I, p. 91.
- 6 M. Scheler, Sociologia del sapere, Abete, Roma 1966, p. 79.
- 7 Cfr. L. Pellicani, Il primo disincanto del mondo, in Modernizzazione e secolarizzazione, Il Saggiatore, Milano 1997.
- 8 L. Russo, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli, Milano 1999.
- 9 L. Feuer, L’intellettuale scientifico, Milano, Zanichelli, 1979, p. 227.
- 10 L. Strauss, Gerusalemme e Atene, Torino, Einaudi, 1998, pp. 70-71.
- 11 Tipico, l’atteggiamento di Pier Damiani di fronte alla «scienza profana». A suo giudizio,
«sono i demoni che hanno infuso in noi il desiderio di sapere e il proposito di lanciarsi nelle arti liberali e negli studi di filosofia»
, citato da L. Jerphagnon, Les dieux et le mots, Paris, Talanier, 2004, pp. 391-392. - 12 M.A. Manacorda, Lettura laica della Bibbia, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 73.
- 13 J. Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino p. 355.
- 14 G. Gusdorf, Origine delle scienze umane, Ecig, Genova 1992, p. 57.
- 15 Cfr. L. Šestov, Atene e Gerusalemme, Bompiani, Milano 2005.
- 16 E. Garin, Il filosofo e il mago in E. Garin ( a cura di ), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Bari 1988, p. 180.
- 17 J. Michelet, Renaissence et Réformes, Laffont, Parigi 1988.
- 18 Cfr. L. Pellicani, Le radici pagane dell’Europa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007.
- 19 W. Ullmann, Origini medievali del Rinascimento in Aa. Vv. Il Rinascimento, Laterza, Bari 1983.
- 20 F. J. E. Woodbridge, Saggio sulla natura, Bompiani, Milano 1956, p. 25.
- 21 A. Koyré, Dal mondo del pressappoco al mondo della precisione, Einaudi, Torino 1988.
- 22 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore, 1961, p. 58.
- 23 U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, p. 498.
- 24 J.B. de Bossuet, Discours sur l’histoire universelle, Garnier-Flammarion, Parigi 1985, pp. 427-428.
- 25 A. N. Whitehead, Natura e vita, Bocca, Milano 1951, p. 64.
- 26 B. Russell, Scienza e religione, Fabbri, Milano 2001, p. 172.
- 27 S. Weinberg, I primi tre minuti, Mondadori, Milano 1980, p. 170.
- 28 R. Dawkins, Il gene egoista, Mondadori, Milano 1992.
- 29 F. Bacone, La dignità e il progresso del sapere divino e umano in Scritti filosofici, Utet, Torino 1975, p. 231. Non diversa la tesi di Cartesio:
«Non dobbiamo mai esaminare le cause finali delle cose create, ma le efficienti»
; I principi della filosofia, in Opere filosofiche, Torino, Utet, 1969, p. 614. - 30 L. Colletti, Pagine di filosofia politica, Rizzoli, Milano 1989, p. III. Negli ultimi anni i sostenitori del “principio antropico” hanno sfidato “il dogma del XX secolo, secondo cui la nostra posizione nell’universo non è eccezionale da nessun punto di vista” ( J. D. Barrow e F. J. Tipler, Il principio antropico, Adelphi, Milano 2002, p. 17). Ma, come era logico che accadesse, il “principio antropico” è stato giudicato nient’altro che un espediente teso a far rientrare dalla finestra il “proposito cosmico”, espulso dalla porta dalla astronomia e dalla biologia. Non diversamente è stata giudicata, dalla comunità internazionale degli scienziati, l’idea dell’Intelligent Design (cfr. E. Boncinelli, Le forme della vita, Einaudi, Torino 2006 e T. Pievani, Creazione senza Dio, Einaudi, Torino 2006).
- 31 K. Lorentz, Natura e destino, Milano, Mondadori, 1990, p. 29.
- 32 J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1973, p. 36.
- 33 Ibid., p. 21.
- 34 S. Kauffman, L’ordine gratuito in J. Brockman ( a cura di ), La terza cultura, Garzanti, Milano 1999, p. 306.
- 35 Così Laplace, rispondendo a Napoleone, definì l’idea di Dio.
- 36 F. Nietzsche, La gaia scienza, Mondadori, Milano 1971, p. 194.
- 37 E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, Bibliopolis, Napoli 1977, p. 145.
- 38 Cfr. M. Gauchet, Le désenchantment du monde, Gallimard, Paris 1985.
- 39 M. Weber, La scienza come professione, Armando, Roma 1997, p. 74.
- 40 E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998.
- 41 J. Ortega y Gasset, Meditazione sulla tecnica, in Aurora della ragione storica, SugarCo, Milano 1982, p 281.
- 42 H. Popitz, Verso una società artificiale, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 60.
- 43 Cfr. D. Cosandey, Le secret de l’Occident, Paris, Flammarion, 2007.
- 44 I. Prigogine e I. Stengers, La Nuova Alleanza, Einaudi, Torino 1993, p. 36.
- 45 Che la scienza sia dominio sulla Natura non significa che essa non sia, contemporaneamente, conoscenza della Natura. In altre parole, la scienza moderna non è solo un formidabile strumento per calcolare e manipolare, è anche – anzi: soprattutto – un sapere teoretico (cfr. R. Campa, Etica della scienza pura, Sestante, Bergamo, 2007).
- 46 P. F. Druckner, The Age of Discontinuity, Pan Books, Londra 1969, P. 349.
- 47 Cfr. W. Leiss, Scienza e dominio, Longanesi, Milano 1972.
- 48 A. N. Whitehead, La scienza e il mondo moderno, Bompiani, Milano 1959.
- 49 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. II, pp. 11-12.
- 50 E. Boncinelli, L’anima della tecnica, Rizzoli, Milano 2006, p. 72.
- 51 Cfr. R. Massa, L’arca di smeraldo. Una storia della natura dai mostri al movimento verde, Milano, Mondadori, 1990, pp. 8-9.
- 52 Un principio che Edgard Morin ha così riformulato:
«L’indipendenza di un essere vivente necessita la sua dipendenza rispetto al suo ambiente»
; La nature de la Nature, Editions du Seuil, Paris, 1977, p. 204. - 53 C. Ponting, Storia verde del mondo, Sei, Torino 1992, p. 20.
- 54 E. Morin, Il pensiero ecologico, Hopefulmonster, Firenze 1988.
- 55 Fra i testi “classici” della critica romantica della Modernità, i più significativi e influenti sono stati La questione della tecnica – dove Heiddeger imputa alla tecnica lo sradicamento dell’uomo e l’oblio dell’Essere – e Dialettica dell’illuminismo – dove Adorno e Horkheimer condannano la scienza moderna come trionfo della quantità e metodica distruzione degli Dei. Il dominio dell’apparato scientifi-co-tecnologico sarebbe, per questi filosofi, la causa principale della rovinosa decadenza spirituale della civiltà occidentale (cfr. L. Pellicani, I nemici della Modernità, Roma, Ideazione, 2000, pp. 42 ss).
- 56 Così Hans Jonas ha formulato il nuovo imperativo categorico che è al centro del paradigma ecologico:
«Includi nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà»
(Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990, p. 16). - 57 J. Zerzan, Future primitive, Automedia, New York 1994, p. 32.
- 58 Cit. da P. Driessen, Eco-imperialismo, LiberiLibri, Macerata, 2004, pp. XXVI-XXVII.
- 59 Cfr. J.L. Harouel, Le cause della ricchezza delle nazioni, Lungro di Cosenza, Marco, 2007.
- 60 J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi, Torino 1998, p. 150.
- 61 Cfr. M. Rees, Il secolo finale, Mondadori, Milano 2005; J. Diamond, Collasso, Einaudi, Torino 2005.
- 62 Né, tanto meno, con le armi dell’ecologismo rivoluzionario, per il quale la lotta ecologica non è fine a se stessa, bensì una tappa di avvicinamento alla grande meta, che è la distruzione del capitalismo.
- 63 B. Lomborg, L’ambientalista scettico, Mondadori, Milano 2003, p. 279.