L'aroma del passato più prossimo. Note su tecnologia, comunicazione e politica
Autore: Mario Pireddu
da: Divenire 4, Attualità () | pdf | stampa
Nel commentare le elezioni europee del giugno 2009, il sociologo francese Alain Touraine ha parlato di “crollo irreversibile del modello socialdemocratico”
, a soli vent’anni dal crollo del comunismo. Dal punto di vista di Touraine, la sconfitta della socialdemocrazia è da collegare tra le altre cose alla progressiva rottura tra classe dirigente e ceti popolari, all’incapacità di formare leadership autorevoli e “in sintonia con i tempi”, così come alla indeterminatezza nella definizione degli obiettivi da raggiungere. 1
I rilievi di Touraine sottolineano l’insufficienza delle proposte politiche alternative a quelle delle varie destre europee, e in effetti sempre più spesso sembra che i socialdemocratici, i socialisti o le forze “progressiste” abbiano come obiettivo unicamente il riuscire ad arrestare l’avanzata della destra. Partendo da simili posizioni, è come se si abbandonasse la partita perché in fondo non si crede nella possibilità di una vittoria.
Proprio mentre l’Europa vive la crisi del modello socialdemocratico e dei suoi valori, gli Stati Uniti della presidenza Obama sembrano lavorare invece alla costruzione di un modello sociale più inclusivo e meno discriminatorio. Al di là della spesso ingiustificata enfasi verso la presidenza Obama, il tentativo di riforma del sistema sanitario statunitense mostra una direzione precisa: un percorso non privo di difficoltà, se è vero che nessun presidente è mai riuscito nell’impresa, ma un percorso chiaro e comprensibile.
Touraine, come si è visto, ricollega la sconfitta politica dei socialdemocratici al progressivo distacco tra élite politica progressista e ceti popolari, ricordando come durante i periodi di crisi economica siano spesso gli estremismi a guadagnare consensi. La crescita di numerosi movimenti apertamente xenofobi – come per esempio il British National Party – sarebbe appunto riconducibile, oltre che alle specificità di ogni singolo paese, alle paure e ai timori connessi alla crisi economica globale degli ultimi due anni. Si ricordino le proteste degli operai inglesi della Total a Lindsey contro la manodopera “straniera” seppur europea (in quel caso italiana), con gli slogan “UK Jobs for British Workers” (che riprendeva le parole del premier Gordon Brown), e “Put British Workers First”. 2 E di rottura con i ceti popolari parlano anche gli analisti italiani, per spiegare la perdita di consensi delle forze tradizionalmente “di sinistra” (marxiste, post-marxiste, socialiste) e la crescita della Lega Nord anche in regioni del centro-nord fino a poco tempo prima apparentemente inespugnabili, nella direzione di una sorta di Lega nazionale capace di intercettare e moltiplicare le paure. 3
Il punto d’incontro tra il dibattito italiano – quasi interamente dominato dalle vicende personali del leader del centro-destra Silvio Berlusconi – e quello europeo, più attento alla trasformazione delle categorie politiche tradizionali, è sicuramente la riflessione su media, comunicazione, e – nel linguaggio di Touraine – il rapporto tra classe dirigente e ceti popolari. Con il suo libro La ragione populista (Laterza 2008) Ernesto Laclau ha provato a far nascere una discussione sul tema del populismo, partendo dalla consapevolezza della difficoltà di descrivere il populismo in termini non meramente semplicistici o riduttivi. A un’analisi attenta, in effetti, non può non risultare insufficiente la tradizionale approssimazione con la quale – soprattutto da sinistra – si descrive solitamente il populismo: povertà intellettuale, imprecisione, emotività, comportamento irrazionale, manipo-lazione, etc. Più che la ricerca di pratiche intrinsecamente populiste, allora, appare importante l’osservazione di elementi e situazioni ai quali viene applicata la categoria di populismo. Gli interrogativi che nascono dalla lettura del libro di Laclau portano inevitabilmente a riconsiderare lo sviluppo dei sistemi politici democratici, dalla psicologia delle folle alla società di massa novecentesca, fino all’ascesa della sfera pubblica interconnessa e delle reti. Si può considerare il registro dei discorsi populistici come conseguenza di una specifica realtà sociale? E il populismo può essere considerato come azione politica dotata di una precisa razionalità interna? Ancora, è davvero la “immaturità” del corpo sociale il problema centrale? Chi asseconda il discorso populista è veramente persona non adeguatamente formata, da educare e correggere?
Un ulteriore interrogativo potrebbe riguardare la natura populista di parte delle ideologie “mature” tradizionali e del loro ruolo nelle dinamiche di formazione delle identità collettive, laddove “popolare” è stato da sempre preferito a “populista” – per la presunta natura democratica delle ideologie di sinistra, o per quella sociale delle ideologie di destra.
Se il populismo semplifica il discorso politico, sostituendo differenze complesse e sfumature di senso con poche e chiare dicotomie, prima di definirlo inaccettabile o di rifiutarlo in via pregiudiziale è allora necessario comprendere i meccanismi e le ragioni del successo di tale semplificazione. L’analisi sociale e la scienza politica hanno confinato il populismo nella categoria dell’inammissibile, giacché il punto di vista della condanna morale ha condizionato da sempre la valutazione del fenomeno in sé. Se nessuna politica è realmente degna della “piena razionalità”, così come non tutte le semplificazioni sono necessariamente portatrici di degradazione o sventura, allora si deve concludere che il ragionamento politico astratto e ascetico ha costruito una idea di normalità del tutto arbitraria, spesso contrapposta alla cancrena “patologica” della degenerazione.
Questa breve premessa avrebbe potuto essere ben più lunga, e avrebbe potuto riflettere ben più a fondo su quanto la concezione del “populismo” come fenomeno quasi esclusivamente “di destra” tradisca un limite del discorso politico progressista (sempre che questa parola abbia ancora un senso) o “di sinistra”. Quel che però importa in questa sede è la comprensione della necessità di riconsiderare l’opposizione sinistra-destra nel dibattito politico contemporaneo, soprattutto alla luce delle trasformazioni sociali e dei profondi mutamenti culturali in cui siamo tutti coinvolti come parte attiva, anche se non di rado inconsapevole.
Lo sguardo “da sinistra” su media e comunicazione del Novecento è sempre stato in qualche modo uno sguardo carico di sospetto, quando non di aperto rifiuto. Così come è accaduto per il populismo (che dei media novecenteschi si è ampiamente servito) la matrice élitaria e tipografica del pensiero marxista e post-marxista ha sempre tenuto ai margini del dibattito politico anche una seria e profonda riflessione sul rapporto tra media e mutamento sociale. L’eredità migliore del materialismo storico come metodo d’indagine ha potuto così dare i suoi frutti solo all’esterno delle tradizionali aree culturali “progressiste”. Ecco perché, ad esempio, un approccio mediologico agli studi sulla comunicazione ha preso corpo in modo discontinuo e a fasi alterne, queste ultime essendo spesso legate alle fortune di questo o quel pensatore “non organico” o comunque da considerare “eccentrico”. Da Walter Benjamin a Edgar Morin (autori molto citati ma sistematicamente mai presi troppo sul serio), passando per Marshall McLuhan (etichettato in Italia come stravagante produttore di “discutibili sofismi” – celebre la definizione di Understanding media come “Cogitus interruptus” da parte di Umberto Eco 4 ), gli autori dei contributi più interessanti per comprendere la reale portata dell’utilizzo diffuso delle tecnologie per la comunicazione sono sempre rimasti al di fuori della sfera d’interesse di chi nei partiti di sinistra doveva occuparsi di comunicazione e società. In Italia la condanna della televisione di intrattenimento – con la sola apertura verso un’unica forma di possibile di televisione, la tv pedagogica – ha segnato tutto il cinquantennio postbellico, così come il rifiuto di un rinnovamento estetico della comunicazione politica ha condotto negli anni ottanta alla critica senza appello dei congressi del Partito Socialista da parte di quadri e dirigenti del PCI. La lettura a senso unico delle pagine gramsciane su letteratura, popolo e nazione ha condotto alla chiusura sistemica verso tutto ciò che non rientrava all’interno della produzione “impegnata” politicamente, sia in campo cinematografico che letterario, con una palese reticenza ad accettare le forme comunicative della televisione. Negli ultimi vent’anni le cose sono cambiate, complice anche la presenza ingombrante di Silvio Berlusconi e della sua comunicazione aggressiva, specialmente in materia di presenze televisive. Oggi, nell’evidente tentativo di avvicinare la propria parte politica alle realtà comunicative del vissuto quotidiano, il segretario del Partito Democratico italiano sceglie persino di presenziare al sessantesimo Festival di Sanremo della canzone italiana, evento televisivo per eccellenza. 5 Quel che è importante rilevare è però la sostanziale assenza di una politica seria del Partito Democratico in materia di comunicazione di rete: tra cartelloni pubblicitari e salotti televisivi, sembra quasi che si resti ancora una volta fuori dal proprio tempo, ovvero dal presente e dall’immediato futuro dei pubblici connessi e della sfera pubblica nelle reti. Si cita continuamente il presidente Obama, e non si fa tesoro delle strategie politiche cross mediali che hanno contribuito alla sua elezione.
Al di là del panorama italiano, in ogni caso, la crisi è forte anche negli altri paesi europei, e viene da lontano. Se le persone, le istituzioni, le imprese comunicano continuamente e lo fanno attraverso la mediazione e l’immersione in un ecosistema tecnologico diffuso su scala planetaria, quali sono i luoghi della politica? La politica come progetto di emancipazione, come azione di libertà o per la libertà, è la pratica che legittima lo spazio dello stare insieme, uno spazio che da sempre viene pensato come differente da quello biologico o naturalistico: la politica riguarda la sfera delle mete individuali e collettive, e la scelta delle modalità attraverso le quali raggiungere tali mete. Ma al di là delle pretese astratte, il progetto politico si occupa da sempre della sfera del vivente, del bíos, ed ogni politica è essenzialmente anche una biopolitica, perché il corpo è l’elemento irriducibile a partire dal quale si ripropone l’interrogativo su cosa è un essere umano.
Il diritto e la legge considerati come ambiti della razionalità pura non sono meno rischiosi della politica concepita come pura emotività: ognuna di queste sfere è in fin dei conti costruita sulle istanze insuperabili della corporeità, e il superamento dell’attuale stallo politico potrebbe forse ripartire da questa consapevolezza.
In Europa si tende a parlare di politica nella sua accezione moderna, dunque nell’esasperazione delle radici classiche, poi giudaiche e cristiane, quindi illuministe e infine democratiche. Una identità che pur nel cambiamento persegue appunto l’identico, una immagine di umanità esclusiva che passa da un imperialismo all’altro. Le retoriche sulla cultura plurale che via via si sono succedute nel tempo, anche quelle progressiste, sono servite allo spirito delle nazioni europee, capace di ridar forma sempre nuova a imperialismi di ogni tipo, non ultimo l’antropocentrismo. L’aver rifiutato per decenni di considerare l’importanza di autori come Nietzsche o di esperienze avanguardistiche come il Futurismo ha rivelato infatti la sostanziale incapacità del pensiero post-marxista e socialista di venire a patti con i cambiamenti del mondo. Le tecnologie per la comunicazione, in particolare, sono sempre state viste in un’ottica puramente strumentale, secondo un approccio che non poteva consentire di comprendere la natura fortemente post-umanistica delle pratiche comunicative novecentesche.
Qui post-umanistico indica qualcosa che si allontana dai presupposti e dai limiti dell’umanesimo tradizionale, dall’autocostituzione dell’umano come soggetto assoluto (Marchesini 2002). Con post-umanistico ci si riferisce a una serie di trasformazioni di ampia portata che hanno a che fare con il rapporto dell’uomo con il mondo, così come con i dispositivi di regolazione delle culture e le istituzioni sociali. La visione autarchica dell’uomo rinascimentale, sulla quale si fondano in gran parte le ideologie e le politiche sociali moderne e contemporanee, è sempre meno adatta a dar conto dei mutamenti e dei nuovi percorso del cammino dell’umanità. La specie umana, infatti, anche se un fissismo platonico ricorrente fa di tutto per evitare di ricordarcelo, è votata alla tecnica sin dalla sua comparsa e non ha mai smesso di trasformarsi e di ridefinirsi ad ogni nuova tappa del relativo sviluppo delle tecniche e delle culture (Popitz 1995).
Pensare in termini post-umanistici significa in primo luogo contrastare le esaltazioni tecnologiche dell’antropocentrismo occidentale mascherate da nuove promesse di liberazione. Ad esempio, se la lotta politica per la libertà di ricerca scientifica e leggi più aperte sul piano delle libertà individuali è un obiettivo concretamente perseguibile, parlare di “nuova specie” che sconfigga la morte attraverso le tecnologie non è nient’altro che la riproposizione di vecchie e dannose ideologie della Salvezza (Breton 1995).
L’obiettivo è assumere tutta la complessità di una situazione nella quale sono entrati in crisi i tradizionali rapporti fra dato biologico e dato culturale. Considerare attentamente il sistema uomo-tecnologia significa allora riconoscere che l’equilibrio fra componenti culturali e componenti biologiche nell’essere umano sta cambiando in modo più radicale di quanto non sia mai cambiato nell’intera storia della specie (e allo stesso tempo che questa accelerazione non nega la storia evolutiva precedente). I processi di ibridazione e compenetrazione tra uomo e tecnologia – sempre presenti nella storia dell’umanità dato che su essi si è basato ogni scarto culturale – sono oggi rapidissimi: il ritmo di trasformazione culturale e tecnologica ci costringe a riconsiderare il ruolo che la biologia dell’essere umano aveva sinora avuto, ovvero quello di segnare il limite dell’evoluzione culturale. Una politica del presente e del futuro deve tener conto della possibilità di influire direttamente sulla dimensione genetica e biologica dell’essere umano stesso e del vivente tutto. Se il disorientamento è comprensibile, non è accettabile però un atteggiamento politico-culturale di chiusura in orizzonti del passato: ai post-marxisti tornerebbe utile la lezione di Marx sulla necessità di affrontare con fermezza il proprio presente per cercare di indirizzarlo al meglio verso un futuro possibile più desiderabile. Affrontare i problemi posti dal superamento concreto del retaggio ideologico antropocentrico (e dalla considerazione strumentale delle tecnologie) significa agire in accordo con le nuove possibilità dispiegate dalla tecnologia, affinché esse diventino possibilità di vita migliore e di sviluppo di nuove soggettività. Una politica libera dal pregiudizio antropocentrico (e tipografico), dunque, significa naturalmente autonomia della sfera personale, ma nella consapevolezza del nostro continuo attra-versamento di soglie e della nostra costitutiva ibridazione con l’alterità (umana, animale, tecnologica). La hybris non più come momento di crisi ma come processo di coniugazione con l’alterità, e in ambito comunicativo le tecnologie e i media non più come semplici strumenti ma come parte essenziale del nostro essere al mondo, del nostro fare esperienza del mondo.
Eppure il modello socialdemocratico sembra non riuscire a fare sue queste posizioni, e continua a divincolarsi nelle maglie della propria pesante eredità culturale. Il caso italiano è poi ancora più complesso, perché il partito che aspira ad essere socialdemocratico (anche se non lo si afferma espressamente per timore di perdere una componente interna) è in realtà frutto dell’unione di una tradizione post-marxista e di una tradizione che si ispira alla dottrina sociale della Chiesa. Se si cerca di governare il futuro con gli strumenti del passato non si può che fallire nell’impresa (lasciando inoltre campo libero alle forze politiche avversarie). È qualcosa che è già avvenuto. Si pensi, ancora una volta in ambito comunicativo, a quel che scrisse McLuhan negli anni sessanta: «per affrontare gli eccessivi effetti tattili dell’immagine televisiva non basta cambiare i programmi. Una strategia intelligente, fondata su una diagnosi adeguata, prescrive invece un altrettanto approfondito metodo strutturale per cogliere da vicino il mondo letterario e visivo esistente. Se persistiamo con l’affrontare questi nuovi sviluppi con metodi convenzionali, la nostra cultura tradizionale verrà spazzata via come la scolastica nel Cinquecento. Se gli scolastici, con la loro complessa cultura orale, avessero capito la tecnologia di Gutenberg, avrebbero potuto creare una nuova sintesi dell’insegnamento scritto e orale, anziché ritirarsi dal gioco permettendo così alla pagina puramente visiva di attribuirsi tutti i compiti dell’insegnamento. Essi non seppero affrontare la nuova sfida visiva della stampa; e la conseguente espansione o esplosione della tecnologia di Gutenberg fu sotto molti aspetti [...] un impoverimento della cultura»
(McLuhan 2008: 82).
Si pensi anche alle proposte pedagogiche attuali: sembra che la pedagogia del presente abbia una matrice a tutti gli effetti regressista, giacché non è più rivolta al futuro con speranza, ma tende il suo sguardo verso il passato con evidente rimpianto (Maragliano 2008). Il paradosso è che la cultura progressista rimpiange ora quello stesso passato che aveva profondamente criticato e messo in discussione anni prima. Non ci si può sottrarre davanti al compito di misurarsi con i nuovi e sempre più pervasivi regimi della comunicazione: occorre viverli e farli propri, è necessario abitarli. Si pensi ancora a un ulteriore passaggio: dopo l’epoca dei regimi comunicativi dei mass media e ora in quelli delle reti, si assiste ancora al rifiuto del concetto di homo sapiens come homo technologicus proprio da parte di chi si è legato intimamente a una particolare tecnologia. È il caso paradossale di molta accademia contemporanea, pronta a indicare i rischi di una eterodirezione o di una sottomissione dell’uomo alla tecnologia, rifiutando al contempo di considerare tecnologica la pratica della scrittura, che costituisce tanta parte della sua identità, e non riuscendo a vedersi presa nelle maglie di un pensiero integralmente alfabetico e tipografico.
Riprendendo ancora una volta McLuhan, una politica in sintonia con lo spirito del proprio tempo dovrebbe ribaltare i termini di paragone reintroducendo come non necessariamente negativa la dimensione “neotribale” dell’oralità, dell’istantaneità nelle comunicazioni, della fluidità delle relazioni nelle reti, per scoprirne invece le infinite possibilità di costruzione di mondi condivisi. Affrontare il futuro e il cambiamento senza troppi timori, capovolgendo il discorso politico delle destre fondato sulla crescita e sul mantenimento della paura. Non impedire il mutamento, dunque quanto piuttosto governarlo, suggerendo a questo scopo strategie politiche fondate non sulla ripetizione del passato ma sulla scoperta e l’innovazione tecnologica e concettuale.
Non a caso torna utile il già citato movimento futurista, che pur nell’eterogeneità e non di rado nell’ingenuità delle sue proposte, tra tutti i movimenti d’avanguardia è stato quello che più ha considerato l’introduzione della macchina e della tecnologia nella vita quotidiana dell’uomo, accettando l’irreversibilità del salto in avanti, e riconoscendo la “tecnologicità” del proprio tempo, fino ad adeguare le tecniche proprie dell’arte ai processi tecnologici. La contraddizione del futurismo risiede nella sua leggerezza di fondo, che lo portò in una prima fase ad antropomorfizzare la tecnologia per poi giungere in una seconda fase a macchinizzare l’uomo. Ad ogni modo, la polemica dei futuristi contro la “polvere” dei saperi passati mise a nudo le condizioni di fondo di una cultura, come quella italiana, da tempo tesa unicamente alla conservazione del patrimonio del passato, «portata eternamente all’imitazione in virtù di un malinteso classicismo» (Nazzaro 1973). Un atteggiamento, questo, che è vivo ancora nelle politiche culturali dei partiti politici progressisti, laddove ad esempio, nel far riferimento allo stato di crisi (della finanza, dell’economia, di scuola e università, del cinema, etc.), si tende ad attribuirne la causa al fatto che si siano persi i modelli positivi del passato.
Così come i futuristi si scagliavano contro la categoria del passato come forma mentis della cultura nel presente, da un punto di vista strettamente mediologico si può ricordare con McLuhan la logica che lo studioso canadese definiva “dello specchietto retrovisore”, per la quale davanti a ogni innovazione tecnologica e sociale si tende a osservare il presente secondo logiche precedenti al cambiamento stesso, ovvero “arretrando nel futuro”. Il concetto di “specchietto retrovisore” è utile anche per spiegare alla politica i cambiamenti connessi all’introduzione di nuove tecnologie e nuovi media per la comunicazione e la trasmissione del sapere. Di fronte a situazioni nuove, come in condizioni di transizione, spesso, si cerca quasi automaticamente di recuperare «l’aroma del passato più prossimo», di «imporre la forma del vecchio al contenuto del nuovo», di «costringere i nuovi media a fare il lavoro dei vecchi» (McLuhan, Fiore 1968).
Per i futuristi l’essere è immerso in un continuo divenire, e anche per McLuhan il movimento umano è un processo, e l’uomo una forma in continuo cambiamento. Se però i futuristi vagheggiavano un percorso lineare, il discorso mediologico indica invece un processo di trasformazione “a mosaico”, non lineare e non evolutivo, certamente più complesso ma non per questo da rifiutare.
L’opposizione di intellettuali, politici, educatori e studiosi verso le forme espressive connesse ai media audiovisuali del XX secolo, e oggi ai social network e alle reti, non è altro che una sorta di chiusura preconcetta che ha i tratti del conservatorismo e dell’idealismo (Johnson 2006). Come si è detto, i risvolti sul piano pedagogico di un approccio conservatore (benché “progressista”!) all’interpretazione dei media non tipografici si traducono non di rado nell’edificazione di sistemi formativi costruiti intorno a un’unica tecnologia “salvifica”, il libro. L’apprendimento istituzionalizzato diventa così una sorta di rifugio o di ideale ancora di salvezza nell’inarrestabile e dissipatrice deriva contemporanea. Questo mentre le punte più avanzate del dibattito internazionale su apprendimento, e-learning e costruzione della conoscenza mettono in luce i punti di debolezza del vecchio sistema educativo, sostanzialmente monomediale, e illustrano in modo approfondito le opportunità offerte dal nuovo panorama comunicativo.
Se per “tradizione” molti movimenti progressisti si sono sistematicamente allontanati dalle pratiche quotidiane di consumo culturale, dagli immaginari più o meno fantastici connessi alla diffusione di pellicole cinematografiche, fumetti, programmi televisivi, videogiochi, reti di comunicazione, etc., l’obiettivo ora dovrebbe essere quello di comprendere queste realtà e di pensarsi dentro e non fuori i confini di questo mondo. Un atteggiamento élitario diffuso tra quanti si occupano di politica, di cultura, di educazione, di formazione e comunicazione all’interno dei partiti che aspirano a guidare una società in movimento, è il modo migliore per non arrivare mai a governare. La partecipazione, il consumo mediale e il lavoro del mercato sull’immaginario si sovrappongono alle funzioni e agli strumenti tradizionali della cittadinanza così come era stata concepita alla nascita degli stati borghesi. L’opinione pubblica si forma in ogni tempo attraverso la discussione e attraverso la mediazione di tecnologie specifiche: oggi è il tempo della rete (benché l’Italia ad esempio sconti ancora un retaggio fortemente televisivo). Nuove modalità di consumo, nuove forme di trasmissione del sapere, nuovi desideri, nuovi bisogni, nuove aspirazioni: un livello di complessità sociale difficilmente gestibile con i vecchi strumenti della formazione e della comunicazione politica.
L’idea moderna di educazione della masse sulla quale sono nate le tradizioni politiche progressiste nasce sulla tradizione umanistica dell’educare e dunque sul «condur fuori l’uomo dai difetti originali della rozza natura, instillando abiti di moralità e di buona creanza»
. Si dovrebbe operare così in politica quel che sta avvenendo nell’ambito delle teorie sull’educazione: non si tratta dunque paternalisticamente di tirar fuori dalla rozzezza, ma della possibilità di tirar fuori le ricchezze che sono dentro ognuno di noi. Così come il costruttivismo insegna a comprendere i meccanismi di costruzione partecipata della conoscenza, allo stesso modo la politica dovrebbe cercare di coinvolgere effettivamente quante più persone possibile nel processo di gestione delle istanze comuni. Ecco perché, ad esempio, le forze politiche italiane che vogliono governare al posto delle destre dovrebbero lavorare meglio nei territori delle reti e delle relazioni nei social network, invece di concentrarsi sul Festival di Sanremo.
Se è vero che la quantità può condurre alla qualità, come è stato detto, il sistema comunicativo integrato tra uomo e reti assumerà sempre più peso in futuro (anche in Italia), e altre innovazioni – web semantico, servizi per il mobile, dispositivi per le tre dimensioni, etc. – costringeranno a dover essere continuamente aggiornati (Castells 2000; Jenkins 2007, Tapscott, Williams 2007; Shirky 2009). È chiaro come sia qui necessaria, al di là di ogni pretesa astratta della politica, una comprensione del corpo come segno peculiare del nostro essere al mondo (si pensi naturalmente non solo al tema della comunicazione ma anche al rapporto tra culture, tra diversità umane e animali, al cambiamento climatico, all’inquinamento, etc.). La politica stessa deve rifondarsi, abbandonando la propria connotazione di “progetto umanistico della soggettività”: l’instabilità delle soggettività contemporanee impedisce infatti di continuare a pensare l’uomo come sistema autarchico. D’altro canto, la comprensione del mondo non può che essere frammentaria e relativa, e nessun progetto politico può più pensarsi universale. Se la politica è il governo della vita, quest’ultima è qualcosa che non appartiene più solo all’uomo, ma a un sistema di interdipendenze che lo trascende.
Riferimenti bibliografici
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Note
- 1 “Intervista ad Alain Touraine”, L’Unità, 9 giugno 2009.
- 2 “Operai inglesi contro gli italiani: ci rubano il lavoro”, Il Sole24Ore, 30/01/2009.
- 3 I. Diamanti, “Se il Carroccio diventa una Lega nazionale”, La Repubblica, 13/12/2009
- 4 Cfr. U. Eco, “Cogitus interruptus”, in Dalla periferia all’impero, Bompiani, Milano, 1977.
- 5 “Bersani: andrò a Sanremo, no snobismi”, Corriere della Sera, 11/02/2010.