Soggettività e ontopoiesi. Il multividuo
Autore: Roberto Marchesini
da: Divenire 4, Attualità () | pdf | stampa
Il multividuo
Se valutiamo il canone di soggettività dell’uomo occidentale del nostro tempo e lo paragoniamo a quanto ancora valeva nella prima metà del Novecento ci rendiamo immediatamente conto dello scarto profondo che si è venuto a creare negli ultimi cinquant’anni proprio nel cuore stesso dell’ontologia. L’essere, agito e percepito nelle sue coordinate di necessità e di possibilità, è stato progressivamente traghettato da una concezione “individuale” – nel senso di ben collocata in una struttura identica, indivisibile, riconoscibile – a una “multividuale”, vale a dire verso un caleidoscopio di molteplicità che si sostiene-mantiene grazie alla non unicità-coesione di posizione. Il multividuo non è propriamente un individuo che cambia continuamente, inafferrabile perché in perenne mutazione, né possiamo interpretarlo come una soggettività camaleontica in cerca di accettazione o di annullamento nel suo ambiente di vita e tanto meno come vacuità di profilo o totale apertura di senso. Leggere il multividuo attraverso la focale umanistica significa in buona sostanza perderlo dal campo di fuoco poiché ad apparirci non è il tradizionale conflitto interiore della molteplicità identitaria, né la totale declinazione referenziale di pirandelliana memoria. Il multividuo non vive cioè il conflitto della pluralità, né si limita a passare da una forma all’altra, bensì esplode nelle diverse forme senza mai cercare di integrarle, semplicemente mantenendole in modo sincronico. Pertanto è fuorviante vedere in tale magmaticità la sola rinuncia di un’identità forte o stabile o, tanto meno, la mera affermazione di un flusso di identità; in altre parole non ci troviamo di fronte a un’assenza o un’evanescenza, punto di arrivo di una rinuncia o di un sé esausto, ma al fenomeno opposto, vale a dire all’acquisizione-affermazione di più identità nel qui e ora.
Se l’uomo moderno pienamente inserito nella cornice umanistica cerca e vive la difficoltà di assumere un profilo ben definito e coerente nelle diverse situazioni e nel trascorrere del tempo, giacché legge il cambiamento come un dispiegarsi coerente (evolvere) e l’essere come un situarsi emergente (esistere), non è così per noi, che lo accettiamo o meno. Le due direttrici, evolutiva ed esistenziale, sono entrate in crisi con il tramonto di quell’idea di soggettività solitaria e autonoma che ha caratterizzato l’età moderna, anche per la trasformazione del divenire e dell’agire della soggettività che ha portato in evidenza la tecnosfera del XX secolo. Attenzione tuttavia: lo slittamento non sta al di fuori dell’ontopoiesi – di solito si attribuisce lo sbandamento avvertito dall’uomo contemporaneo a fattori esterni come lo sviluppo tecnoscientifico e le sue applicazioni o l’eccessiva meccanizzazione del mondo – ma è prima di tutto dentro di noi! Da questa consapevolezza nasce la crisi aperta dalla rivoluzione postumanistica. L’uomo di oggi non può mantenere quelle coordinate di stabilità che avevano costruito e confortato la soggettività umanistica lungo tutta la modernità. Soprattutto non deve farlo se intende predisporre delle direttrici di interpretazione e proiezione rispetto ai mutamenti in atto e a quelli già consumatisi.
Finché rimarremo ancorati ai vecchi concetti umanistici – per esempio di identità divergente, di purezza, di unicità – quelli cioè che hanno dato vita a un’immagine ben precisa di soggettività basata sull’individuo e sull’individualismo, saremo assolutamente incapaci di comprendere tale metamorfosi e ci limiteremo a considerare il cambiamento come una deriva. L’idea di individuo come entità emergente per separazione, dialogica in quanto e solo nella misura in cui si rende interlocutoria, solida perché coesa, integrata e coerente nei suoi aspetti, unica come speciale e indivisibile non corrisponde più all’esercizio della soggettività che si viene a dipanare nell’attualità. Se non siamo in grado di capire l’anacronismo è ovvio che non vediamo gli spazi che si vengono ad aprire e rimaniamo con gli occhi volti al passato. Sento spesso affermare che non c’è nulla di nuovo, che già tutto è stato detto, che l’età contemporanea si limita a chiosare o, al più, a distruggere l’impianto faticosamente edificato dall’umanismo: devo dire subito che ho forti riserve verso tale atteggiamento, poiché spesso la nostalgia, o, se si vuole, la neofobia, viene prima della valutazione e ne è la vera matrice causale. L’umanismo ha costruito l’immagine dell’uomo moderno e ad essa è fortemente legato, ma entrambi (la cornice umanistica e l’idea individuale della soggettività) non sono affatto degli assoluti bensì delle strutture interpretative della soggettività in linea con le coordinate storiche allora vigenti. L’umanismo pertanto non è un paradigma valido per tutte le stagioni così come l’immagine individualistica della soggettività non è il solo modo di considerare-realizzare la soggettività.
L’individualità umanistica è una soggettività che pretende di realizzarsi attraverso un cammino di purificazione, uno svolgersi alla ricerca di ciò che è autenticamente proprio, costruendo a posteriori una coerenza e solidità del soggetto intorno a un’identità forte che emerge divergendo dal contesto e persino dalle relazioni intersoggettive. L’identità individuale è fondata sull’epurazione delle alterità e sulla ricerca del nocciolo della propria essenza. L’accento cade sull’autopoiesi della soggettività, in una visione eroica del sé che gravita necessariamente intorno a quella concezione enucleativa, coesa, divergente che è per l’appunto l’individuo. In altri termini, per l’umanismo la soggettività si raggiunge quanto più si rafforza l’individuo, nei predicati suesposti. La contaminazione è pertanto l’accidente più grave che può capitare alla soggettività umanistica, ove l’individuo si rende tale solo attraverso un insieme di “riti di purificazione”. Questa entità viene considerata libera e responsabile, portatrice di diritti e di correlati doveri, solo in quanto e per quanto emergente nel suo evolvere ed esistere, vale a dire nel suo essere riconoscibile in senso diacronico e sincronico.
La soggettività postumanistica è, viceversa, basata sul multividuo o, se si vuole, sull’assunzione della molteplicità come stato sincronico e della contaminazione come fondamento dell’ontopoiesi, ove si ritiene che qualunque profilo di coerenza e coesione redatto a posteriori sia un artefatto e come tale vada considerato. L’ontopoiesi non è un percorso di purificazione, una ricerca del vero sé, bensì è un lungo cammino di integrazione delle alterità ossia un’apertura progressiva al mondo e, in tal senso, una progressione di assunzione di mondo. Questo significa che nel processo onto-poietico la soggettività non diverge e soprattutto non si realizza dispiegando qualità interne (essenzialistiche) ma attraverso il contributo referenziale delle alterità. La soggettività postumanistica si costruisce pertanto attraverso dei “riti di contaminazione” dove non è mai possibile derivare i predicati della soggettività dal soggetto quale entità isolata, bensì occorre valutarli come qualità emergenti dal contributo co-fattoriale delle alterità. In altre parole, la soggettività non cerca una regressione al nucleo della propria essenza, non aspira alla purezza del vero sé liberandosi dai cosiddetti condizionamenti esterni ma accetta la propria natura ibrida, accetta cioè che attraverso la propria soggettività siano anche le alterità ad esprimersi.
Esistere ed evolvere
Di certo la trasformazione tecnoscientifica del XX secolo ha trasformato in modo profondo il modo attraverso cui la soggettività si realizza e si percepisce; questo per altro la dice lunga sul significato co-fattoriale dell’emergenza identitaria. La tecnosfera è diventata a tutti gli effetti la misura attraverso cui il soggetto cala la sua presenza nel momento, vale a dire nel cosiddetto qui e ora, e ne riceve la sensazione istantanea di “essere” e parimenti di permanenza diacronica ovvero di “strutturarsi” in un’identità biografica. Orbene, la tecnosfera è una realtà che ha visto un’evoluzione senza precedenti nell’ultimo secolo, cambiando il nostro contesto di vita ossia l’ambiente in cui la soggettività si forma ed esercita la sua titolarità. Questo significa che a mutare è proprio il cuore stesso dell’ontopoiesi: 1) l’essere, come coordinata sincronica, non è più “esistere”, nel senso delimitativo, collocativo e altresì coesivo; 2) lo strutturarsi in senso biografico, come coordinata diacronica, non significa più “evolvere”, nel senso di dispiegare qualità interne e divergere dalle alterità, ossia rendersi riconoscibile perché unico.
Le due coordinate, sincronica e diacronica, si sono fortemente modificate sotto la spinta delle trasformazioni indotte dalle nuove tecnologie, per questo parliamo di una soggettività multividuale ossia che non pretende di aggregarsi intorno a un profilo coeso. L’esistenza e l’evoluzione, così come tradotte a noi dalla tradizione, sono proprie dell’individuo che afferma la sua divergenza delimitando le sue liminalità e dispiegando le sue qualità essenziali: l’individuo è quella soggettività che si staglia per differenza, che si sviluppa per far emergere la forza del carattere ossia la sua vera essenza. Nell’evolvere dell’individuo non c’è un’acquisizione di mondo ma, semmai, un’epurazione di mondo: attraverso l’esperienza il sé si purifica, porta fuori la sua vera natura, e in tal modo si rafforza perché elimina le scorie, le presenze spurie, aumenta la propria aggregazione intorno al nucleo, prende consapevolezza della propria originalità (nel senso pieno del termine). Nell’esistere dell’individuo ritroviamo un forte bisogno di collocazione spazio-temporale, un realizzare il presente attraverso la propria presenza, un’assunzione di titolarità piena nei confronti del futuro, uno stagliarsi della soggettività che assume l’arbitrio decisionale; è pertanto presenza e possibilità riferibile all’autenticità ovvero alla conformità rispetto alla propria essenza.
Cosa rinveniamo oggi in buona sostanza? Che queste due coordinate hanno subìto uno slittamento, per cui non è più l’individuo (evolutivo ed esistenziale) a doversi confrontare con un quadro contestuale mutato: l’individuo di fatto non c’è più, poiché è tramontato il paradigma che lo aveva costituito. Quello che solitamente si stenta a capire è che non si tratta di una trasformazione coinvolgente solo il contesto, incapace quindi di intaccare quel punto fermo che chiamiamo “principio individuale della soggettività”. Al contrario, ci troviamo innanzi una metamorfosi radicale nel processo ontopoietico e nell’esercizio della soggettività: è il soggetto nel suo essere e divenire a subire i colpi più profondi del cambiamento, cosicché continuare a insistere sui predicati individuali storna l’attenzione ovvero impedisce di cogliere le scansioni dove oggi si muove in effetti la soggettività. Mantenendo il fuoco sull’individuo non facciamo emergere la soggettività giacché questa ha per così dire cambiato forma e posizione. Lo so che può sembrare un paradosso perché siamo abituati a considerare individuo e soggettività una sola entità, ma le cose non stanno più in questi termini. Per potersi esprimere la soggettività oggi deve divenire sterminata e devolutiva, contaminata e convergente: quindi esattamente l’opposto di ciò che le coordinate umanistiche aggregavano intorno al concetto di individuo.
Le tecnologie multimediali e informatiche hanno dato un contributo fondamentale alla realizzazione di questo processo di trasformazione, che può essere così dettagliato: a) passaggio da una concezione di “esistenza”, quale flusso diacronico nell’alveo individuale, a una di “resistenza”, ovvero di coagulazione del passato nel multividuo”; b) passaggio da una soggettività situata o interlocutoria nel processo dialogico a una soggettività metalocata o di connessione permanente attraverso la mediazione iconica; c) esplosione della soggettività in una pluralità espressiva con assunzione di più identità o emergenza della molteplicità nel qui e ora (simultaneità); d) passaggio dalla costruzione della soggettività biografica per evoluzione e divergenza (dispiegare ed epurare) a una costruzione per devoluzione e contaminazione (disperdere e integrare). Questi punti sono molto legati tra loro ed è evidente che una trattazione analitica ha il solo scopo di chiarire la metamorfosi profonda implicata nel passaggio dall’individuo al multividuo.
Ora, io credo che l’affermazione dell’individuo che si viene a consacrare attraverso l’umanismo sia stata un punto centrale nella realizzazione dell’età moderna, perché in un certo senso applica in vivo quelle direttrici di pensiero di esaltazione dell’uomo come entità divergente che erano alla base del progetto umanistico. L’individualismo è stato pertanto esplicitazione sulla soggettività del paradigma antropocentrico chiamato a leggere i predicati umani, dove un ruolo non secondario va ascritto al modello dialogico interpersonale vigente. Non possiamo infatti dimenticare che nell’età moderna a prevalere nella dimensione relazionale è il processo del confronto, vale a dire un interloquire come prendere le distanze dall’interlocutore e un costruire l’identità come stagliarsi dall’alterità. L’ambiente dialogico si caratterizza perciò nel suo dar luogo a un’interazione diretta dove diviene prioritario azzerare qualunque contiguità o ambiguità nel profilo soggettivo assunto: queste sono in fondo le basi che sostengono l’individuo.
Rispetto a ciò penso che si debba riflettere sulla trasformazione del milieu dialogico che si viene a creare nella seconda metà del Novecento, da Internet al cellulare, con uno smembramento fattivo di qualunque gravitazione della soggettività intorno a dei nuclei di coesione. L’individuo è un’entità che si afferma attraverso il dialogo interattivo, con partecipazione piena e locata della persona che pertanto non può trascendere dall’assunzione di un profilo specifico e ben riconoscibile. Non possiamo nasconderci il fatto che l’evoluzione multimediale e informatica del XX secolo ha modificato alla radice questo scenario ovvero ha aperto altre strade di espressione alla soggettività. Se nell’età moderna la soggettività era chiamata ad assumere dei panni di identità forte, di coesione e coerenza unitaria, dove ogni forma di disgregazione e di contaminazione era considerata una deriva, oggi si verifica la situazione opposta. Ponendo il fatto che la soggettività si esprima attraverso il dialogo – con il mondo, con se stesso, con dio, usando la triplice relazione di Kierkegaard – modificando il contesto dialogico, è conseguente che muti la forma stessa attraverso cui la soggettività si manifesta. Ora, secondo l’impostazione postumanistica l’individuo è la manifestazione della soggettività nell’età moderna mentre il multividuo è l’espressione della soggettività nell’età contemporanea.
Oggi sempre di più la soggettività non si esprime attraverso il dialogo interattivo ma attraverso la connessione: la differenza c’è ed è assai rilevante. Anche quando diciamo di dialogare, il più delle volte noi siamo connessi, ovvero interscambiamo qualcosa senza essere vincolati dall’interattività, ossia dall’assunzione di un profilo specifico e riconoscibile. L’identità assunta in connessione è palesemente arbitraria e molteplice, giacché posso vivere contemporaneamente più identità e parimenti dialogare o essere mediatore dialogico non necessariamente attraverso una presenza attiva. La mia personale impressione è che siamo solo all’alba di un processo radicale di trasformazione della soggettività; in altre parole si vola ancora a bassa quota per mancanza di strumenti interpretativi: siamo vincolati dai vecchi schemi dialogici ossia da brainframe – per usare la metafora di De Kerkhove – precedenti la rivoluzione informatica. Di certo a mancarci è anche un po’ di coraggio, ma sono soprattutto gli strumenti ermeneutici a risultare inadeguati.
Siamo ancora trattenuti dai modelli operativi umanistici e questo non ci consente di aprirci alle possibilità o di prendere consapevolezza dei mutamenti in atto. In un certo senso pensiamo di poter mantenere le coordinate tradizionali di soggettività solo con un incremento del potenziale operativo messoci a disposizione dalle nuove tecnologie. In realtà solo in una concezione umanistica dell’ontopoiesi le metamorfosi del contesto referenziale (e le tecnologie sono importanti referenti) rimangono esterne ovvero non intaccano la soggettività. Dobbiamo capire che il progetto individuale assegnato alla soggettività sta tramontando perché di fatto oggi provocherebbe un collo di bottiglia nell’espressione della soggettività e parimenti limiterebbe le possibilità di realizzazione ontopoietica che si rendono disponibili nell’integrazione delle alterità. Si deve riconoscere che, proprio perché capaci di informare il milieu dialogico, le nuove tecnologie hanno chiuso vecchie possibilità espressive inaugurandone delle nuove, cosicché la soggettività si è trovata giocoforza ad assumere nuovi panni per manifestarsi. E non si tratta di un mutamento solo esteriore: passare da una concezione individuale a una multividuale della soggettività significa cambiare in modo profondo le coordinate dell’essere e del divenire verso orizzonti che ancora non conosciamo.
Il concetto di resistenza
Partiamo dal primo punto, vale a dire dal passaggio dalla concezione esistenziale della soggettività a quella resistenziale, una metamorfosi molto importante che, seppur non sempre evidenziata, pesa come un macigno sulla soggettività allorché questa pretenda anacronisticamente di ritrovarsi nel consueto alveo individuale. Mentre l’esistenza è un fluire lungo il tempo, un rinnovarsi che sbiadisce il passato ovvero lo modifica rendendolo funzionale alla significazione operata nel presente (il passato è lo strumento del presente), la “resistenza” indica la compresenza del passato nel presente, la sua corposità sostanziale e sincronica, l’affardellarsi del trascorso (che ovviamente non è più percepito come tale) sul qui e ora. Le conseguenze sono molteplici, di cui due mi paiono rilevanti: a) il presente viene alleggerito o, se si vuole, adombrato, quindi reso più fluido, meno esigente e prioritario nell’individuare le sue coordinate come nel definire le responsabilità del soggetto; b) il passato è l’unico punto fermo intorno a cui si aggrega la coesione identitaria del soggetto, che necessariamente ha perduto di riconoscibilità nel qui e ora e di titolarità sul futuro. Mentre l’esistere si fonda su una concezione dispiegativa dell’identità individuale, il resistere afferma la natura accumulativa dell’ontopoiesi.
La causa di questo coagularsi del passato sul presente è da attribuirsi a diversi fattori, ma penso che un peso non indifferente vada attribuito all’eccesso di testimonianze vive del trascorso – frutto delle nuove “macchine del ricordo”, quali la cinematografia o la realtà virtuale – che la tecnologia del XX secolo ha messo a disposizione. Il trascorso non sbiadisce, non si rende funzionale a quell’operazione di risonanza, tradizionalmente gestita in modo arbitrario dal presente, bensì ha la possibilità di mantenere una compresenza iconica, in qualche modo una sua presenza fattiva. Nell’età contemporanea il passato agisce nel presente, è cioè troppo vivo per dare al presente una titolarità piena, l’esclusività sull’espressione soggettiva. Icone doppelgänger, registrazioni a tempo pieno, ologrammi interattivi creano una ridondanza di passato, e si tratta di testimonianze non solo numerose ma in grado di sostituirsi alla realtà dell’istante. Si opera così un’inversione ontologica: il presente si rende funzionale ossia dedicato al passato. Il presente non mira più a farsi spazio, a permanere, a congelare il flusso diacronico, bensì è costretto ad accelerare il mutamento per rendere riconoscibili e accettabili le icone del trascorso che gli si affiancano. La soggettività subisce al tempo stesso un’implosione diacronica, perché le sequenze dell’esistere si agglutinano sul presente, e un’esplosione sincronica, giacché l’accelerazione metamorfica dona al sé una molteplicità identitaria (e in tal senso una fluidità) che si realizza nel qui e ora. Rispetto a questo pensiamo solo come ha modificato l’eidomatica il modo di percepire se stessi nel tempo o come la telefonia ha annullato la distanza creando uno stato comunicativo di presenza assente.
L’obiettivo dell’uomo del XXI secolo non è più pertanto esistere, ossia fluire nel tempo liberando lo spazio del presente, bensì resistere, ovvero accumulare il tempo creando spazi di ancoraggio del passato nel presente in modo tale da non perdere alcunché. I due processi – implosione diacronica ed esplosione sincronica – si richiamano vicendevolmente e in un certo senso si richiedono e sostengono: a) la fluidità dell’esperienza nel presente rende instabile e confusa l’identità, che necessariamente si appella al passato per definire una struttura biografica; b) la permanenza delle icone trascorse rende coerente l’operazione di frantumazione identitaria del sé. Il tutto facilita la percezione molteplice della soggettività, per cui usiamo il temine di multividuo e non di individuo. Quando parlo di ancoraggio non intendo propriamente il ricordo giacché, come ho detto, quest’ultimo è a tutti gli effetti uno strumento del presente, non mette in forse la piena titolarità del presente nel definire la soggettività. Le icone del trascorso, così ancorate al qui e ora, agiscono sulla percezione dell’esistere: il presente viene adombrato e si creano duplici o molteplici domini di titolarità. L’ancoraggio è un modo per far sì che il passato continui a essere attore, non venga quindi dilavato dal flusso diacronico ma in un certo senso affianchi il presente o, se vogliamo, sia in grado di costruire un dialogo sincronico con il presente.
Resistenza è pertanto un sentire profondamente diverso dal tradizionale “fermare il tempo”, aspetto che presuppone un allargamento dello spazio del presente e un’ambizione di staticità: in tale concezione si desidera infatti fermare il flusso diacronico proprio per non cambiare. Al contrario, la resistenza si fonda sulla dinamicità del mutare anzi, è accelerazione metamorfica dell’identità, esplicitazione di un eccesso di potenzialità declinative dell’essere, ma è contemporaneamente un mantenere, sillegico e tragico al tempo stesso, le spoglie trascorse. Desideriamo rimanere, portarci dietro (come un’ombra, testimone del nostro essere molteplici ma anche unica certezza di soggettività) tutto il nostro passato, non perdere nulla per strada e in un certo senso trasformare il consueto “tragitto evolutivo” dell’esistenza in un’immensa “pianura devolutiva” da percorrere in tutte le direzioni. La declinazione assunta nel qui e ora diviene così fugace apparizione del nostro stare in modo istrionico nell’istante, grazie alle potenzialità che la cultura di oggi (non solo la tecnoscienza) offre all’estro declinativo dell’individuo.
Il punto è che per la prima volta è possibile coniugare la dinamicità dell’essere con tale operazione, per cui resistere non è annullare il tempo, bloccare il fluire in un eterno presente, ma rendere più fluido il presente attraverso una compresenza del passato. Un presente leggero, caotico e dinamico, caratterizzato da sincronismi (essere in più posti contemporaneamente, avere più vite, riprodursi attraverso simulate) consistente di passato non passato, dà al sé l’impressione di “resistere al tempo”. Il presente ha un significato diverso nell’uomo contemporaneo e non è una differenza di poco conto: viviamo un presente fluido che annulla il concetto di qui e ora, viviamo a dispetto del tempo, non ci leghiamo a nulla e nello stesso tempo non abbandoniamo nulla.
Il concetto di metalocazione
Il secondo punto che prendiamo in considerazione è il concetto di metalocazione, un posizionamento al di fuori di un tempo e di uno spazio ben preciso che trasforma le coordinate dialogiche della soggettività, dall’interazione alla connessione. Lo affrontiamo insieme al terzo punto, quello della simultaneità del molteplice: il multividuo non è un individuo che cambia lungo una direttrice diacronica, è una soggettività che si esprime in modo molteplice sincronicamente avendo rinunciato alla coesione del sé nell’alveo individuale. La tecnologia ha avuto una parte non piccola in questa trasformazione, in una parabola di metamorfosi del concetto-percezione di presenza che va dall’elettricità alla realtà virtuale, dove simultaneità e metalocazione sono state in qualche modo le due direttrici portanti. La presenza cioè ha potuto fare a meno del vincolo spazio-temporale: la ridondanza di tracce interagenti (si pensi al concetto di avatar), l’ininfluenza del posizionamento assunto nel qui e ora nel processo interattivo, il divorzio tra i concetti di vicinanza e di prossimità hanno inevitabilmente trasformano la percezione della presenza: sono cambiate cioè le qualità richieste per l’assunzione di una presenza. Quest’ultima oggi non esige più una locazione di prossimità, un inserimento in un tempo ben preciso, una corporeità interattiva; si è presenti come icona e come tale si può sfuggire da ogni specificazione dell’esistenza: l’icona si muove in uno spazio isocrono. L’annullamento della collocazione, la relazione privata della presenza, la molteplicità della presenza hanno cambiato la sensazione del “nulla è reale” nel suo speculare “tutto è reale”. Resistenza è pertanto metalocazione, essere al di là dell’inserimento in un contesto spazio-temporale preciso, essere senza esserci.
L’interazione iconica che sta alla base del concetto di connessione indica qualcosa di diverso dal “mi connetto” perché afferma la costante accessibilità del soggetto che non si connette bensì è in connessione. La sua non è più una partecipazione individuale al dialogo ma uno stare in dialogo e un essere mediatore dialogico; in altre parole il multividuo sempre in connessione è un connettivo, non un semplice interlocutore bensì un “translocutore”. Mi preme sottolineare la differenza giacché mentre nell’interlocuzione la soggettività mantiene una sua distanza dallo spazio dialogico, nel caso della “translocuzione” essa si confonde con lo spazio dialogico, assumendo pertanto declinazioni differenti a seconda degli spazi dialogici che si vengono a implementare sincronicamente. L’icona è pertanto l’artefatto che nasconde la vera natura del dialogo connettivo, dando una falsa impressione di interlocuzione. Sbagliamo pertanto a considerare l’icona come la causa della caduta dell’interazione: al contrario, essa è ciò che mantiene una parvenza di interattività quando è il processo dialogico a essersi radicalmente modificato. L’icona è lo scotto che dobbiamo pagare per passare da una visione interattiva a una connettiva del dialogo, l’icona è pertanto ciò che rimane della tradizionale interlocuzione. Tutti noi negli anni ottanta abbiamo iniziato a utilizzare il computer come se fosse una macchina da scrivere: ogni metamorfosi richiede degli operatori ermeneutici ponte, capaci cioè di traghettare da una concezione a un’altra. All’icona il ruolo di nuovo Caronte della soggettività, creando nel tragitto una parvenza di interlocuzione.
Il vero punto di svolta sta nella capacità del soggetto di sottrarsi alla collocazione interlocutoria ossia di metalocarsi e di esprimere il molteplice nel simultaneo. La presenza assente rende la soggettività non un punto preciso nello spazio-tempo: è la sua non specificazione interattiva a consentire l’emergenza del molteplice. Essere metalocati significa che non ha importanza il luogo-tempo specifico di collocazione perché la soggettività può avvalersi di locazioni fittizie, tali sono per l’appunto le icone. Ma attenzione, non confondiamo la transizione con la permanenza: l’icona non è l’individuo, e parimenti non è una traccia dell’individuo. Possiamo infatti pensare che da sempre l’uomo ha cercato di andare oltre la propria presenza caduca lasciando tracce di sé; e tuttavia non è errato vedere nell’emergenza delle tecnologie del simultaneo – l’elettricità come la radio – un balzo non indifferente nella direzione della metalocazione. Il corpo ha un suo tempo e le tracce testuali soffrono inevitabilmente dello scarto diacronico tra l’emissione e la trasmissione: la lettera è una traccia non una presenza, a differenza della telefonata. Al contrario, attraverso le tecnologie del simultaneo posso essere presente, nel senso pieno del termine, mantenendo l’assenza e ciò mi consente di spaziare in modo isocronico nella realtà.
La transizione verso una soggettività metalocata ha seguito diverse strade moltiplicando le icone di compresenza, si pensi all’ossessione degli ultimi decenni del Novecento per i videotape, percepiti non più trofei del sé trascorso, ma come spazi di interpretazione del vissuto – nell’affettività come nella sessualità – capaci cioè di dare corpo al presente. Non vi è dubbio che tale pratica abbia appesantito lo spazio biografico rendendo leggerissimo, quasi evanescente, il presente ma parimenti traslocandolo sul supporto mediale. Prende forma una nuova forma di affermazione di presenza: si è solo in quanto circolanti su un media. Ovvio che a cambiare in tale prospettiva è la percezione stessa di soggettività spostando sempre più il fuoco del protagonismo soggettivo sull’icona. D’altro canto la mania per i videotape andava a inaugurare una vera e propria ideologia del presente resistenziale, ossia di un presente che diventa vero non in quanto si dona al fluire ma perché si affianca al fluire. Diverse tecnologie contribuiscono a questo processo di translocuzione, non ultima il diffondersi della telefonia mobile che ha tolto anche il significato posizionale della comunicazione telefonica. La grande rivoluzione digitalica ha poi permesso di unificare i diversi ambiti di simulazione analogica – il testo, la fotografia, il film, il disco – dando luogo a un’unica pertinenza, una seconda realtà che diviene sempre meno simulativa e sempre più consistente. Ancora oggi tendiamo a operare una differenza tra il reale e il simulato, ma questo margine si assottiglia con velocità crescente e ben presto non avrà più senso differenziare questi due contesti.
Non sempre ci si sofferma a riflettere sulla trasformazione antropologica impressa dal digitalico, una rivoluzione che a mio avviso va paragonata, come processo capace di indurre una sorta di “salto speciativo” nell’antropopoiesi, ad altri analoghi, quali la domesticazione o la scrittura. La sintesi digitalica ha dato luogo a un’unificazione dei contesti, è vero, ma valutarla solo in tal modo è riduttivo. La digitalizzazione della scrittura, della voce, delle immagini, dei profili, delle euristiche ha segnato l’avvento di un “secondo mondo” che non può più essere considerato solo testimonianza o simulazione. Mentre l’analogico era palesemente una riproduzione, anche perché non in grado di dialogare con i diversi sistemi e comunque di limitate possibilità di conversione della traccia, con la trasformazione digitalica la simulazione non è più tale: posso dialogare, ossia realizzare la presenza, tramite l’icona che pertanto non è più simulacro ma “nuovo corpo interattivo”. Lungo gli anni novanta sempre più ci si abitua a interagire con icone, e attraverso una propria presenza iconica; si passa cioè dall’interazione alla connessione e la progressione è a velocità crescente. La multividualità è potenzialità di confusione, o azzeramento dei vincoli, di referenza spazio-temporale cosicché il sé vive una presenza plurale, simultanea e metalocata, che sempre più intacca l’unicità (indivisibile, identico) per dar luogo a una soggettività che esplode nel tempo e nello spazio e soprattutto realizza compresenza e translocuzione.