Uomo faustiano e tecnica
Autore: Francesco Boco
da: Divenire 2, Genealogia () | pdf | stampa
L'opera monumentale di Oswald Spengler (1880-1936) Il Tramonto dell'Occidente viene spesso citata senza un'adeguata preparazione. Capita infatti che si accenni ad essa in maniera molto sbrigativa, riducendo l'enorme lavoro storico-filosofico dell'Autore a un grande affresco del pessimismo romantico tardo-ottocentesco, quando in realtà le cose stanno ben diversamente. Il capolavoro spengleriano è sì uno studio comparato della storia dei popoli, ma contiene anche ampie argomentazioni in materia di antropologia, politica e filosofia. Per quello che interesserà sottolineare nelle righe seguenti, sarà interessante raccogliere i riferimenti incentrati sull'uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, ponendo particolare attenzione al rapporto che esso intreccia con la tecnica. Come si potrà comprendere alla fine, la concezione spengleriana non è priva di spunti interessanti per il pensiero transumanista.
Il sorgere delle civiltà
Le civiltà storiche sorgono dopo migrazioni. Gruppi di uomini primitivi si spostano da una regione a un'altra, fino a quando un impulso creatore si manifesta e spinge queste tribù alla conquista e al radicamento in un territorio definito. L'uomo inteso come animale attivo ha nello sguardo il senso preminente, attraverso esso infatti domina il paesaggio e in ciò che è visibile può identificare un mondo dell'estensione e del movimento, qui l'essere umano è in tensione. «Il corpo si muove nello spazio visto. L'esperienza della profondità è un risoluto portarsi verso lontananze visibili partendo da quel centro luminoso, che chiamiamo l'Io»
(Spengler 2002: 662). Da ciò che si coglie attraverso la vista si sviluppano in un secondo momento intelligenza e linguaggio, ma risulta evidente fin da subito la peculiarità della visione spengleriana dell'uomo e l'approccio conoscitivo caratteristico: egli si concentra sui "fatti" e non sulle teorie.
Non dà credito alle costruzioni razionali, poiché afferma che l'anima storica è un qualcosa di istintuale e difficilmente comprensibile dalle categorie dell'intelletto; solo le nature astratte si curano del pensiero e delle meditazioni, mentre gli uomini attivi e costruttori sono sempre rivolti all'azione e all'impulso ad agire. «Il mondo può essere vissuto o compreso, può essere considerato come storia o come natura, come destino o come causalità, come direzione e come estensione: pertanto si danno uomini della causalità e uomini del destino originariamente»
(Giusso 1980: 36). Ciò che caratterizza l'uomo ai suoi primordi è una "coscienza tragica del mondo" in cui non si danno verità assolute, ma solo fatti e azioni, in cui l'uomo impegna la sua volontà nel tentativo di nominare, comprendere e dominare ciò che la sua vista incontra nel mondo. È un tipo di conoscenza storica e collocata, in cui il sapere è in-funzione della sopravvivenza dell'uomo, ed egli lo plasma e utilizza affinché ciò che lo circonda gli appaia meno minaccioso.
Spengler cala l'uomo in una realtà storica conflittuale: i popoli, ci dice, affermano il loro diritto all'esistenza e alla permanenza in un luogo solo attraverso guerre e lotte costanti. Dopo esser riuscito a controllare i fenomeni naturali nella loro oscurità, l'uomo deve impegnarsi nel sottomettere e conquistare le tribù nemiche. «La dura necessità della guerra serve da scuola agli uomini. I popoli conseguono una grandezza interiore al contatto con altri popoli e lottando contro di essi»
(Spengler 2002: 888).
Le cose non vanno diversamente per la civiltà euro-occidentale, quella a cui apparteniamo e su cui l'Autore ha concentrato la sua attenzione e a cui è di fatto dedicato il celebre libro. L'Occidente è la civiltà storica per eccellenza. Per fare un esempio rilevante, le differenze che la separano da quella greca antica sono profonde. 1 La civiltà occidentale è caratterizzata dal divenire e il senso profondo della sua anima si trasmette naturalmente all'arte, fatta di chiaro-scuri e profondità spaziali, alla matematica, con l'utilizzo della funzione, fino al senso dello spazio considerato come estensione e direzione, mobilità, e a ogni altra forma espressiva. Diversamente, l'anima greca e romana si basa sul senso del limite e dello spazio conchiuso, l'arte è quella statuaria che espone corpi ben definiti e la matematica utilizza i numeri semplici. «Ciò che caratterizza dunque la cultura occidentale è questa persistente nota di attivismo volontaristico»
(Beonio-Brocchieri 1928: 74).
Risulta infine quasi scontata l'associazione fatta dallo Spengler tra la civiltà euro-occidentale e la figura mitica del Faust goethiano. In diverse parti della sua opera il filosofo tedesco si richiama al grande poeta, ed è precisamente il celebre personaggio della tragedia omonima a spingere Oswald Spengler a definire la nostra, civiltà faustiana. L'uomo faustiano è dunque l'uomo europeo e occidentale più in generale, colui che ha abbracciato senza esitazione il destino di inesausta scoperta scientifico-tecnologica, naturale conseguenza della concezione storica occidentale del divenire perenne. Faust e Occidente, divenire storico e potenza tecnica – possiamo considerarli sinonimi.
L'anima faustiana della Terra
Come ogni civiltà ha una sua forma che ne pervade ogni aspetto, così la civilizzazione 2 faustiana, ha una sua particolare visione della tecnica, essa «ha un valore simbolico, esprime l'anima di una civiltà: esistono dunque varie tecniche a seconda delle varie civiltà nelle quali si inseriscono»
(Nacci 2004: 76). L'anima faustiana è percorsa da un anelito all'infinito che trova conferma nello spirito di scoperta e conquista che ha attraversato la civiltà occidentale dal suo sorgere (900 d. C.) sino agli anni del suo tramonto (a partire dal ventesimo secolo). Tecnica che si fonda sulla capacità magica di controllare ed evocare, attraverso la fisica per esempio, le forze nascoste della natura. L'uomo faustiano si fa demiurgo del suo mondo, una volta dominatolo con lo sguardo e con la sua azione, egli ne diventa il padrone e custodisce il mistero della Terra nelle sue mani. Attraverso la tecnica l'uomo occidentale mobilita il mondo, per dirla con Jünger 3 , dà cioè una forma al caos che lo circonda, costruisce una civiltà sconfiggendo le avversità naturali e infine edifica attorno a sé una realtà totalmente artificiale che chiama in causa inevitabilmente anche il suo essere: «l'immagine della Terra con le sue piante, i suoi animali, i suoi uomini, s'è mutata»
(Spengler 1989: 88).
Naturalmente per Spengler il risultato a cui ha condotto l'anima faustiana euro-occidentale, cioè la totale diffusione della scienza tecnica sulla superficie terrestre, non è un caso ma è l'esito destinale della forma tipica stessa di questa civiltà. «Il materialismo faustiano in senso stretto, col quale la concezione tecnica del mondo è giunta alla sua perfezione, è un fenomeno che sta per sé. Concepire tutto il mondo come un sistema dinamico di struttura esatta, matematica, sperimentabile fin nelle cause ultime e formulabile in cifre, così che l'uomo possa dominarlo: ecco ciò che distingue questo ritorno alla natura da ogni altro. […] Il sapere è potenza – ciò però ha avuto un senso solo nel quadro della civilizzazione euro-americana»
(Spengler 2002: 1107).
Dopo aver osservato la natura, l'uomo ha iniziato ad imitarla e a creare secondo un procedimento magico-artistico. Dalla casa contadina, passando attraverso la città, si giunge in ultimo alla megalopoli, espressione storica estrema della volontà di potenza faustiana che si estende ed ingloba tutto ciò che la circonda. In questa fase finale la tecnica occidentale ha il suo pieno dispiegamento, ponendo, come si vedrà, dei problemi notevoli a chi non sappia farsi carico del proprio destino.
In questa fase il lavoro diventa il fulcro dell'esistenza, dal momento che l'esistenza dell'uomo non può più fare a meno della macchina, poiché essa è il suo prolungamento, il suo potenziamento irrinunciabile. Come nel passato fu per il martello, così è per il lavoro della civiltà attivistica. L'uomo faustiano centuplica la sua forza individuale e compenetra la sua esistenza con quella delle tecnologie. Egli sospinge la sua creazione sempre in avanti, con incessante impulso direttivo: «questa tecnica lascerà le sue tracce anche quando tutto sarà dimenticato e sepolto. Questa passione faustiana ha trasformato l'immagine della superficie terrestre. […] L'anima ebbra vuol portarsi di là da spazio e tempo»
(Spengler 2002: 1391).
Il ritmo diviene sempre più incalzante e incessante, alla figura del sacerdote si sostituisce quella dell'ingegnere, il profondo conoscitore della misteriosa potenza magica della tecnica, evocatrice delle energie nascoste della Terra. L'industria, nonostante il suo aspetto distruttivo e artificiale, conserva un qualcosa dell'aspetto contadino tanto caro all'Autore. «Anche l'industria è legata alla terra – come l'elemento contadino»
(Spengler 2002: 1395), elemento su cui solo possono sorgere popoli e civiltà storiche. Il vero agente distruttore della costruzione comunitaria non è dunque la tecnica, ma il denaro nella sua declinazione capitalistica di finanza sradicata.
Per quanto questa situazione possa apparire spiazzante e problematica, Spengler non si lascia andare a lamentazioni o richiami al passato, egli non è un pessimista. Come già ebbe modo di esprimersi nell'introduzione della sua opera principale, le persone a cui si rivolge sono specialmente i giovani che si augura si dedichino allo studio e alla pratica dell'ingegneria e della politica, tralasciando le cose letterarie e filosofiche, inadeguate ai tempi che si annunciano. Il discorso spengleriano anticipa quasi commistioni tra mito e futurismo, «immaginate le Walkirie che giungano a volo sugli aeroplani di Junkers, Wotan che manovri i cannoni di Krupp: avrete il contorno tecnico-sinfonico dentro al quale si agita – novello Siegfried di gusto industriale – il titaneggiante spirito della Germania post-bellica, quale si vagheggia nella filosofia di Spengler»
(Beonio-Brocchieri 1928: 23).
Il primato dell'azione
Uno spirito titanico di tal specie trova conferma ulteriore e rinvigorita in un pamphlet del 1931, Der Mensch und die Technik, che concentra in meno di cento pagine molte delle tematiche antropologiche presenti nell'opera più ampia di Oswald Spengler e le porta alla loro conclusione. Il titanismo dell'uomo faustiano lo accomuna, in tutta evidenza, al Prometeo antico. Nella sua lotta per l'esistenza, l'animale uomo spinge alle estreme conseguenze le "tattiche vitali" delle altre specie animali. Specializzati e già forniti di tecniche peculiari, gli animali predatori, i soli ad avere veramente uno spazio nel mondo, conducono un'esistenza in costante tensione per la sopravvivenza. «La tecnica è la tattica dell'intiera vita. È la forma intima del comportamento nella lotta che si può identificare con la vita stessa»
(Spengler 1989: 16). In questa prospettiva, gli artigli del felino o il ringhiare del cane sono tecniche della specie, esse sono invariabili e sono classificabili come istinti. L'animale non può scegliere le tecniche di cui fare uso, non può crearle e non può pensare un futuro, esso vive nel solo presente.
Diversamente, l'uomo è un costruttore e riesce a rendersi indipendente dalla vita della specie. Proprio per questa sua libera azione nel mondo egli si pro-getta, si getta in avanti verso l'avvenire, «come Prometeo, è obbligato a dirigersi su ciò che è lontano, su ciò che non è presente nello spazio e nel tempo; vive – a differenza dell'animale – per il futuro e non nel presente»
(Gehlen 1983: 59).
Partendo da una posizione svantaggiata rispetto alle altre specie animali, l'uomo riesce ad imporre il suo regno sulla Terra, la sua lotta è inesausta e la sua fame di dominio non ha posa. Ma la capacità di questo essere vivente così sfornito di "istinti naturali" di vincere le avversità sta tutta, dice Spengler, nella mano, un'arma che non conosce uguali nel mondo della vita dotata di libero movimento e attorno alla quale tutta la vita umana, biologica prima e intellettuale poi, si è eretta. Solo a partire dalla mano esiste l'uomo in quanto tale, senza di essa egli non avrebbe storia né mondo.
La vita della nostra specie è tutta legata alla scelta per un'esistenza prettamente culturale, vale a dire artificiale, frutto dell'arte manuale umana. «Le armi degli animali feroci sono naturali; solo il pugno armato dell'uomo, munito dell'arma fabbricata con arte, meditata, scelta, è tale. […] Artificiale, antinaturale è ogni opera umana, dall'accensione del fuoco alle prestazioni che noi, nelle alte civiltà, definiamo come propriamente artistiche»
(Spengler 1989: 44-45). È a partire da questo organo peculiare e versatile che l'antropologia spengleriana può assegnare all'azione un primato temporale, teoretico e ontologico sulla conoscenza razionale e sull'intelligenza.
Anticipando riflessioni che verranno ampiamente sviluppate ad esempio da Arnold Gehlen e più recentemente da Aldo Schiavone (2007), Spengler sostiene che prima viene l'osservazione degli orizzonti spaziali dominabili e la loro "messa in forma" attraverso la tecnica umana; prima viene l'azione umana, che mette alla prova la sua forza e la sua capacità di controllare la natura, e solo in un secondo momento, quando cioè l'uomo ha consolidato il suo ruolo sulla Terra, quando la tecnica gli permette di quietare almeno per poco il suo attivismo, solo allora riflessione e linguaggio si separano dalla tecnica per costruire autonomi campi di conoscenza - a loro volta finalizzati a un migliore e più attento dominio sulla natura e sugli altri uomini. Da questo momento, dalla rivoluzione neolitica che vede nascere le prime società agricole, il lavoro umano assume due forme, una direttiva e una esecutiva. Il pensiero svolge allora un ruolo fondamentale nel coordinamento delle forze operative, e perciò è tenuto in altissima considerazione dal filosofo tedesco. Su un tale disciplinamento della società umana sorgono gli Stati, la sola vera espressione storica delle comunità umane.
Come si può vedere, per Oswald Spengler, la tecnica non è un qualcosa di negativo, i suoi esiti non sono "alienanti o violentanti la natura" 4 , se non per coloro i quali restino – e nella misura in cui restino – allo stato di natura senza riuscire ad affrancarsene. «[Per Spengler] L'"alienazione" è la necessaria contropartita dell'affermarsi del "creatore", animale da preda affrancato dai limiti della specie, quando egli irreggimenta e sottomette, come fossero strumenti ed utensili, ma anche parti del proprio corpo, i suoi sottoposti, che sono, per tanto che vengono in considerazione in tale veste, parte integrante della Natura. Solo può dirsi libero l'uomo che esprime se stesso creando. L'alienazione non concerne quindi l'uomo vero e proprio»
(Locchi 2006: 109). Ciò a cui si è arrivati è per l'Autore il frutto di una scelta fatta millenni or sono, scelta con la quale l'esistenza storica umana ha tracciato il suo destino.
Poteva andare diversamente, questa forma di vita priva di difese poteva perire ed esaurirsi come chissà quante altre, ma così non è stato. La tecnica, tattica di vita artificiale, ha affiancato dalle origini l'uomo nel suo divenire storico e attraverso le varie civiltà superiori indicate da Spengler. L'uomo faustiano, nello specifico, è quello in cui la tensione all'infinito e alla scoperta hanno maggiormente influito nello sviluppo tecnologico: è infatti la civiltà occidentale ad aver conosciuto una diffusione meccanica mai conosciuta prima. E questo, certo, non è un caso, ma è il destino proprio a questa civiltà. «La tecnica nella vita dell'uomo è cosciente, volontaria, variabile, personale, identica. Viene imparata e perfezionata. L'uomo è diventato il creatore della tattica della sua vita: questa la sua grandezza; – e il suo destino»
(Spengler 1989: 35).
Il tramonto, un destino inevitabile?
È stato spesso frainteso il costante riferimento spengleriano al tra-monto della civiltà occidentale, considerandolo come l'apocalittica fissazione di un pessimista romantico in tenuta da beccamorto. In realtà l'Autore non ha fatto altro, a suo stesso dire, che porre davanti agli occhi del lettore la ciclicità degli eventi storici e i fenomeni che segnalavano l'esaurirsi del vigore della civiltà occidentale. Tra questi fenomeni, il più importante è l'incapacità di farsi carico del proprio destino, avere cioè il coraggio di condurlo alle estreme conseguenze per preparare un nuovo inizio.
Torna dunque il volontarismo nietzscheano e ne è conferma l'appello ai nuovi cesari che Spengler fa nelle pagine finali del suo capolavoro come in altre opere strettamente politiche 5 . Nella fase di decadenza che chiama civilizzazione, c'è ancora spazio per l'azione decisiva di uomini politici esperti, individui dalle eccezionali capacità, in grado di sfruttare denaro, diplomazia e ogni altro mezzo moderno per conseguire i propri scopi. Se l'Occidente "bianco" appare sfinito 6 , una possibilità, sembra dirci Spengler, ancora esiste ed è risposta nelle mani degli uomini.
Naturalmente nel preannunciare la fine della civiltà faustiana, il filosofo considera anche il ruolo della tecnica in una tale inevitabilità. La decadenza viene e non ci si può sottrarre ad essa se non superandola, ma è possibile affrontarla con la forza decisa di chi accetta il destino della propria civiltà sino in fondo.
È quindi sbrigativo e piuttosto contraddittorio parlare di uno Spengler "nemico della tecnica" 7 che si muove tra la volontà di farla finita con la macchina e la volontà opposta di accettare le conseguenze della scelta storica faustiana fino alla nuova alba di una civiltà rigenerata. Ciò non diversamente dagli analoghi ed interessati tentativi di arruolare in questo campo Martin Heidegger, debitamente giustiziati da Guillaume Faye nel breve testo Per farla finita con il nichilismo. Heidegger e la questione della tecnica (Faye 2008).
Il problema, come s'è già accennato, non sta nella tecnica in sé, ma nell'uomo euro-occidentale che risulta inadeguato alle nuove sfide e ai nuovi compiti a cui la tecnica faustiana lo chiama. «Il pensiero faustiano comincia ad essere sazio di tecnica. Si diffonde una stanchezza, una specie di pacifismo nella lotta contro la Natura»
(Spengler 1989: 90). L'uomo occidentale rinuncia al suo ruolo e al suo destino quando regala le sue tecnologie ai popoli non europei, quando fornisce ad essi gli strumenti per porre fine all'egemonia globale tecnico-politica dell'occidente faustiano. Stanchezza fisica e intellettuale segnano il decadere dell'uomo civilizzato e il ritirarsi dell'"ultimo uomo" nietzscheano nella condizione del Fellahim, del "senza storia": chi rifiuta il divenire e le sue sfide perché non si sente, non è, e non vuole più esserne all'altezza.
Per quanto riguarda la tecnica e le sue implicazioni, il pensiero spengleriano si situa perciò nel campo opposto ai nemici del divenire e della tecnologia. Consapevole del fatto che l'industria, radicatasi sulla superficie terrestre, ha modificato non solo il paesaggio, ma l'uomo stesso, l'Autore chiama a raccolta le forze decise e volontariste capaci di fare fronte alle nuove condizioni di vita che la storia dell'uomo occidentale ha in ultimo creato, a compimento della sua parabola.
Quando si dimentica la propria natura autentica, la volontà di scoperta e conquista, il piacere storico di nuovi orizzonti, allora significa che la vita è esausta, si sta ritirando e ha cessato di scorrere nelle vie di quella civilizzazione oramai tramontata. Oswald Spengler si rivolge così a uomini nuovi, adatti alle sfide e alle difficoltà del futuro, forti quanto basta da comprendere il corso del destino e non lasciarsene trasportare placidamente come corpi senza vita. Se la tecnica ha accompagnato sino ad oggi l'uomo faustiano, ciò significa che essa è il suo destino, e allora «il pericolo non sta per l'autore in un eccesso di tecnica, ma nella fuga dalla tecnica. Il pericolo, aggiungiamo, non è costituito dalla grande città e dal quadro del mondo che a questa si accompagna, ma dalla fuga da questo, dalla stanchezza dell'Occidente di procedere oltre, non dall'oltraggio ma dal timore di commetterlo»
(Arcella 2005: 17).
Bibliografia
- Arcella L. (2005), Morfologia Economica, Settimo Sigillo, Roma.
- Beonio-Brocchieri V. (1928), Spengler, Edizioni Athena, Milano.
- Conte D. (1997), Introduzione a Spengler, Laterza, Roma-Bari.
- Faye G. (2007), Per farla finita col nichilismo. Heidegger e la questione della tecnica, S.E.B., Milano.
- Gehlen A. (1983), L'Uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano.
- Giusso L. (1980), Oswald Spengler, Edizioni di Ar, Padova.
- Jünger E. (2000), L'Operaio, Guanda, Parma.
- Locchi G. (2006), Definizioni, S.E.B., Milano.
- Nacci M., “Dominio, destino, declino. Spengler e la tecnica”, in AA. VV. (2004), Oswald Spengler tramonto e metamorfosi dell'Occidente, Mimesis, Milano.
- Nietzsche F. (2001), Volontà di potenza, Bompiani, Milano.
- Schiavone A. (2007), Storia e destino, Einaudi, Torino.
- Scianca A., “Guardando il destino negli occhi: l'operaio di Jünger e la questione della tecnica”, in Divenire, 1/2008, Sestante Ed., Bergamo.
- Spengler O. (1989), L'uomo e la macchina, Settimo Sigillo, Roma.
- Spengler O. (1994), Anni della decisione, Edizioni di Ar, Padova.
- Spengler O. (2002), Il Tramonto dell'Occidente, Guanda, Parma.
Sitografia
- www.uomo-libero.com autori G. Faye e G. Locchi
- www.biopolitica.it
- F. Boco (2008), L’occidente tramonta ancora: www.mirorenzaglia.org
- guillaumefayearchive.wordpress.com
Note
- 1 Spengler (2002), ad es. p. 457, 592, 906 e sgg. ecc.
- 2 È noto il dualismo spengleriano civiltà (Kultur) e civilizzazione (Zivilization): la prima è la fase creativa e vitale, la seconda subentra alla prima quando la spinta vitale storica si esaurisce e conduce al tramonto della civiltà – la fine della storia.
- 3 Cfr. Adriano Scianca, "Guardando il destino negli occhi: l’operaio di Jünger e la questione della tecnica", in Divenire. Rassegna di studio interdiscplinari sulla tecnica e il postumano, 1/2008, Sestante Edizioni, Bergamo.
- 4 A tal proposito, una critica della tecnica come “violenza” degna di attenzione è quella svolta da Emanuele Severino in (2003), Tecnica e architettura, Raffaello Cortina Editore, Milano. Si tratta evidentemente di un pensiero radicalmente avverso al divenire storico.
- 5 O. Spengler (1994), Anni della decisione, Edizioni di Ar, Padova.
- 6
«L’essenza dell’anima dell’universo bianco si è consumata nell’entusiasmo di perseguire il culmine della forma, e nell’anelito a raggiungere il compimento interiore»
(Spengler 1994: 183). - 7 Cfr. Nacci (2004).