La tentazione a-storica. Come il cinema narra la mitologia luddita
Autore: Francesco Boco
da: Divenire 4, Futurologia ()
Il kolossal cinematografico Avatar è approdato nelle sale anticipato da un tam-tam mediatico di proporzioni straordinarie e ha creato attorno alla pellicola una fitta serie di aspettative. Per alcuni si doveva trattare del film in grado di tracciare un nuovo paradigma, quasi un capolavoro definitivo nell’ambito del cinema commerciale, il punto più alto raggiunto ad oggi dalla settima arte, e non solo al botteghino.
In realtà, guardando con attenzione, ed al di là della fantasmagoria della confezione, all’ultima fatica di James Cameron, si resta facilmente delusi dalla povertà e banalità della trama, ma anche dalla caratterizzazione spicciola dei personaggi. Certo, malgrado le due ore di film, non ci si poteva certo aspettare che Avatar offrisse il tipo di spessore che Kurosawa dava ai suoi personaggi; ma in questo caso la lunghezza stessa del film appare forzata al solo scopo di prolungare l’esperienza visiva ed “esistenziale” dello spettatore piuttosto che per reali necessità narrative.
Al di là di una sceneggiatura che, considerate le attese, fa acqua da tutte le parti, e che rappresenta semplicemente, come molti anno hanno notato, una pedissequa trascrizione “fantascientifica” di Pocahontas, molti si sono concentrati appunto sulla parte visiva, sullo sforzo compiuto da Cameron e dal suo studio per rendere il mondo di Pandora quanto più realistico ed “immersivo” (grazie anche alla presentazione in tre dimensioni) possibile.
Ognuno potrà farsi una propria idea riguardo alla riuscita tecnica di tale progetto, ma quello che interessa sottolineare in queste righe è che, sotto una facciata ipertecnologica, il film da poco uscito nelle sale presenta una serie di messaggi al contrario fondamentalmente antitecnologici e si pone in radicale contrapposizione a quello che è stato chiamato lo spirito faustiano europeo.
A prima vista la scelta di Jake Sully, il marine protagonista della pellicola, sembra del tutto in ordine con un’ottica transumanista dell’uomo. Il ragazzo sceglie infatti di vivere una vita di azione trasferendosi in un nuovo corpo, l’avatar del titolo appunto, grazie al quale può tornare a camminare. Fin qui nulla da eccepire: Jake decide di abbandonare la sua “first life” per una “second life” più intensa e autentica. Le implicazioni di questa scelta sono però di segno fortemente opposto, poiché si ricava dal film un messaggio che i più hanno definito come “ecologista”, ma che appare ancora più radicalmente opposto all’idea di un’appropriazione tecnica del mondo come mezzo di una trasformazione postumana, al di là della “linea” che marca il nichilismo della nostra epoca 1
Dietro alla spicciola critica “dall’interno” dell’imperialismo “bianco”, argomento che nella sua versione buonista è in fondo di larghissimo consumo anche negli USA e ormai del tutto politicamente recuperato, Cameron tesse in sostanza un elogio idealizzato delle società pre-storiche, calando il protagonista (e lo spettatore) in una dimensione di sogno fuori dallo stress quotidiano, del tutto estranea alle logiche gravose della storia e del fluire del tempo. Il contrasto è lampante: da un lato i terrestri con le loro astronavi armate di tutto punto e le tute robotiche d’invasione, dall’altra delle tribù pacifiche di alti felini semi-umani dalle pelle blu, armati di lance e frecce, che vivono sugli alberi e ignorano la tecnologia.
Questo quadretto arcadico, che con grande dispiego di mezzi tecnici non fa che riprodurre la versione più banale del mito del “buon selvaggio”, sottende in effetti da un lato una critica alla tendenza all’esplorazione e alla ricerca di nuovi spazi e nuove avventure che diede vita alla nostra espansione nel mondo, e dall’altro una nostalgia neanche troppo implicita di una vita estranea a qualsiasi tentazione di operare modificazioni sulla natura e l’uomo. Cameron esprimerà forse la bellezza della scoperta e della contemplazione del panorama, come ha sostenuto qualche giornalista, ma mette anche in campo un facile e stereotipata critica allo spirito di conquista tanto radicato nella storia europea. Facendo un tutt’uno del difficile rapporto degli yankee con le altre culture, a cominciare da quella autoctona dei pellerossa, e della lunga epopea dell’espansione europea nel mondo, il regista riassume sotto l’immagine di un terrestre assolutamente “occidentale” tutta quella parte di mondo che agli occhi del pubblico rappresenta indubbiamente la parte più avanzata tecnologicamente e in grado di portare guerra ovunque. Nella sbrigativa semplificazione cinematografica il manicheismo è manifesto e patetico: i bianchi terrestri sono cattivi e spietati, senza alcun rimorso e interessati solo al profitto e alla distruzione; i blu Na’avi, gli alieni autoctoni, sono invece in armonia con la natura, sono (o almeno sono diventati) pacifici e vivono in tribù in armonia tra loro.
All’idealizzazione dell’Altro-da-sé, che rappresenta solo il pendant dialettico del suo rifiuto e del bisogno di distruggerlo o assimilarlo, e che è tipica di quelle culture che si sentono colpevoli di qualcosa e pensano di espiare parteggiando senza se e senza ma (ma sopratutto... ex post) per la parte avversa, segue coerentemente un rifiuto di tutto quanto è stato sin qui espresso da quella che Oswald Spengler chiama la civiltà faustiana, come particolare incarnazione di un processo che ha le sue intime radici nell’ominazione stessa 2 . Sarà Jake Sully, il giovane marine dal cuore d’oro, a «tradire la propria razza» (in realtà la sua intera specie...), come gli rinfaccerà il colonnello Miles Quaritch in una scena cruciale del film. Il regista intende dire qui che il marine ha fatto una scelta di campo, ha tradito cioè la razza (o, più esattamente, la specie) umana a cui apparteneva, per parteggiare per gli alieni. Ed ecco che la rinascita avvenuta in “second life” significa l’abbandono della “forma” umana e di tutto ciò che questa comportava come supernatura.
È attraverso la tecnologia che si rinuncia alla tecnologia. La tecnologia anzi si fa il mezzo per mettere fine proprio alle sfide della tecnica e della storia. Nella realtà, ciò prende le vesti del controllo sociale e della stabi-lizzazione che la tecnologia sarebbe chiamata a garantire, come descritto nel Brave New World 3 o nel Sistema per uccidere i popoli di Guillaume Faye 4 . Nel prodotto culturale rappresentato da Avatar, come nota Stefano Vaj nella sua recensione del film 5 la tecnologia diventa invece doppiamente la chiave per la riaffermazione di un neoprimitivismo onirico, innanzitutto nelle vesti della reale e sofisticata computer graphic che ha consentito la realizzazione della pellicola, e secondariamente in quelle della immaginaria “connessione neurale” che consente al protagonista di uscire dal suo corpo per proiettarsi nel “ritorno alla natura” che si è descritto.
È grazie alla tecnologia infatti che Jake Sully porta a termine la sua ultima connessione abbandonando definitivamente la propria identità originaria e togliendosi dalle spalle per sempre il peso di un esistenza segnata dalla tensione (sovra)umana – che nell’ideologia americana marcata dal monoteismo è fonte di contraddizioni forse irrisolvibili 6 – alla scoperta, alla conquista, alla manipolazione e all’azione storica.
Il film avrebbe piuttosto stupito se a utilizzare un avatar per diventare uomo fosse stato un alieno, magari proprio proveniente da una società a-storica come quella dei Na’avi. Ma il paradigma culturale dominante nel cinema hollywoodiano non prevede certi rovesciamenti di prospettiva e il messaggio di fondo di Avatar conferma tutto sommato la visione tecnologicamente distopica che anche in Terminator lo stesso regista aveva già trasmesso.
Malgrado la possibile tentazione di qualche transumanista di leggere il film in una chiave più positiva, la rinuncia al Satana di un mondo dominato dalla tecnica e alla propria originaria forma biologica non comporta qui in realtà un upgrade della propria forma vitale – non si tratta di un semplice andare da un di-meno di vita a un di-più – ma una chiara scelta di campo che punta lo sguardo sulla bellezza di un’esistenza pacificata e senza preoccupazioni che vadano al di là di un orizzonte quotidiano destinato a ripetersi eternamente in un’inutile successione di generazioni sempre uguali.
Ora, se è quasi scontato osservare che la vita nelle società cosiddette “fuori dalla storia”, che tendono a ripetere sempre se stesse, è molto meno attraente e politically correct dalla sua immagine idealizzata, tra scontri sanguinosi, malattie, cannibalismo, sacrifici umani, razzie, sofferenza, e quant’altro, va sottolineato che il kolossal ha, consapevolmente o no, un messaggio chiaro da dare allo spettatore.
E cioè: «Certo, la tecnologia è emozionante e c’è da divertirsi a fare esperienze extra-corporee utilizzando gli ausili via via messi a disposizione dalla tecnologia, ma alla fine è tale esperienza stessa a farci rendere conto che il meglio della vita non è la costante scoperta e la tensione struggente verso nuove prospettive e nuove creazioni; il meglio della vita è vivere nel proprio orticello sicuro e pacifico, in ritmi tradizionali e pseudonaturali, e al sicuro presso il proprio focolare, senza mai alzare lo sguardo verso l’orizzonte»
.
Forse calchiamo un po’ la mano, ma alla fine quello che se ne trae è questo, e nient’altro. Un affresco neanche troppo edificante in cui del resto si strizza l’occhio allo spettatore per suggerirgli che l’esperienza che sta facendo comodamente seduto in poltrona – quella di un simulacro di vita “naturale” su Pandora! – non è neppure necessario si traduca davvero in realtà, perché in fondo è meglio la tranquillità dei propri confini noti. Niente viaggi interstellari, niente partenze alla scoperta di nuovi pianeti (perché investire nei programmi della NASA quando rende di più l’elettronica di consumo o la realizzazione di film come Avatar?), niente trasformazione dell’uomo in qualcosa di più: la civiltà del divenire è il Peccato, la tecnologia è un pericolo (salvo forse per quanto possa farsi strumento di redenzione e controllo), e lo spirito faustiano è bene che ritorni nei libri di Goethe, Spengler, Marinetti, vecchi sognatori buoni solo a ricordare ciò che l’uomo fu in passato. E se pure il neoprimitivismo reale è impraticabile, e non ci è aperta oggi la scelta del protagonista di “staccare la spina”, possiamo sempre avvicinarci a questo “ideale” investendo sempre di più di noi stessi negli avatar che, senza rischi per il loro utente, vivono per noi nel cinema, nei videogames, nei mondi virtuali su Internet... Già, perché a differenza del mondo di Matrix, in cui ciò che accade nel virtuale si ripercuote in certa misura nel mondo reale, nel mondo di Avatar, e simmetricamente in quello del suo spettatore, il bozzolo in cui tendiamo a passare sempre più tempo ci protegge interamente dalla prospettiva di subire le conseguenze delle nostre scelte.
Se, come ha detto qualcuno, Avatar porta sul grande schermo il fantastico e il mito, rinvigorendoli con le più avanzate elaborazioni grafiche oggi possibili, ebbene, si tratta di una mitologia capovolta, un mito incapacitante della fine della storia e dell’avventura vissuta in prima persona, proiettata in un’avventura di ritorno alla “sicurezza” di una cultura sempre uguale. Gli alieni Na’avi ricevono la sconvolgente visita della storia quando si trovano davanti le macchine dei terrestri, e da lì cambia tutto. La storia fa irruzione nel mondo del buon selvaggio e in fretta e furia questi pellerossa dalla pelle bluastra vedono sconvolta la propria vita. Da (potenzialmente) pre-storici diventano definitivamente a-storici, e scelgono esplicitamente la dimensione del perenne identico-a-se-stesso che non ha nulla a che vedere con quella dell’eterno ritorno (per ritornare, bisogna prima andare). Jake Sully è il ribelle antitecnologico che non incarna affatto il mitema dell’upgrade, o nietzschanamente del “superamento-di-sé”, perché non è interessato a scoprire nulla di nuovo che non sia ciò che i Na’vi fanno da sempre; ciò che cerca e per cui opta è la protezione di un già-esistente, destinato semplicemente a replicare se stesso.
Fuori di metafora, se il mito di Prometeo, che ha segnato così profondamente la storia d’Europa, indica nella mano che impugna e manipola, nella creazione e nella scoperta un gesto da confermare e prolungare nel tempo, i miti moderni dell’Europa e dell’Occidente sono stati, secondo una coerenza stupefacente, Faust, Don Chisciotte e Amleto. A cui si vanno ad aggiungere a pieno diritto Zarathustra e Mafarka. Non la quiete, ma la costante tensione a qualcosa di ulteriore, in cui questa “specificità umana”, che è ciò che fa (può fare) la nostra grandezza, ben può venire ad incarnarsi in un essere postumano: Blade Runner.
Piuttosto, alle fantasie fin troppo rassicuranti di James Cameron possono essere contrapposti gli scenari ben meno moralistici ed edificanti del secondo e terzo episodio della serie Mad Max o anche del racconto di Jack London La peste scarlatta. Scritto nel 1912 quest’ultimo è un testo visionario nel quale il grande autore americano immagina la terra del 2013, dopo la catastrofe provocata appunto dalla peste scarlatta. «Noi che avevamo dominato il pianeta, la sua terra, il suo mare e il suo cielo, noi che eravamo veri e propri dèi, ora viviamo allo stato selvaggio, primitivo, lungo i corsi d’acqua…»
. Le cose si presentano in un’ottica molto meno idilliaca rispetto al pianeta Pandora. Se le tecnologie non supportano più la vita dell’uomo, il tema tanto caro a Jack London della lotta per la sopravvivenza non fa che riemergere nella sua dimensione tendenzialmente preumana.
Ma tralasciando le citazioni cinematografiche e narrative, ben si capisce comunque quale sia l’impostazione culturale del cinema americano attuale e soprattutto quali siano i temi che maggiormente interessano il pubblico occidentale. Al fianco di film come 300, Troy, Il Gladiatore, che in un modo o nell’altro si riferiscono, foss’anche in modo distorto, alle radici della identità europea, il cinema americano propone una futurologia della rinuncia e dell’abbandono. Si osserva il passato come un bel cimelio su cui ricamare prospettive grottesche, e si propone un futuro in cui del messaggio di quel mito non ne è più nulla, lo si estirpa. Il cinema holly-woodiano è la mitologia del futuro? In attesa di risposta non resta che sperare che il cinema europeo batta un colpo.
Martin Heidegger aveva già espresso le sue preoccupazioni riguardo alla tecnica non perché temesse la tecnologia in sé, ma perché temeva che l’uomo fosse impreparato ad essa ed alle responsabilità a cui veniva chiamato, che voleva sfidarlo ad assumere. 7 Forse non si sbagliava, se si riescono ancora a prendere come miti del futuro visioni apertamente primitiviste e antitecnologiche, opposte a qualsiasi autentico spirito faustiano e futurista, e se la tecnologia di punta serve solo a renderle più cogenti. Il mito è una narrazione che spiega e illumina il percorso vitale di una comunità; se questo è un mito del ritorno al grembo di Madre Natura, difficilmente potrà nascerne un destino degno di ciò che siamo, di ciò che potremmo diventare.
Note
- 1 M. Heidegger, E. Jünger, Oltre la linea, Adelphi 1989.
- 2 O. Spengler, L’uomo e la macchina. Contributo a una filosofia della vita, Settimo Sigillo 1989.
- 3 A. Huxley, Il mondo nuovo, Mondadori 2007.
- 4 G. Faye, Il sistema per uccidere i popoli, SEB 1997.
- 5 S. Vaj, “Chi vuole vivere da Avatar?”, Il Fondo Magazine 18/01/2010 (www.mirorenzaglia.org).
- 6 G. Locchi, Il male americano, Akropolis 1978.
- 7 G. Faye, Per farla finita con il nichilismo. Heidegger e la questione della tecnica, SEB 2007.