Il superuomo del futurismo: tra immaginario tecnologico e socialismo rivoluzionario
Autore: Riccardo Campa
da: Divenire 3, Genealogia ()
Una rivoluzione antropologica
Il Futurismo è l’unica avanguardia artistica italiana del Novecento che ha avuto un impatto a livello internazionale e, nel contempo, è il movimento che più di ogni altro si è mostrato sensibile ai temi della tecnica e del postumano./p>
La tesi principale che vogliamo qui sostenere è che il futurismo del XX secolo ha rappresentato non solo un precursore del transumanesimo, ma perfino un transumanesimo ante-litteram. Corollario di questa tesi è l’attualità del futurismo, ovvero il riconoscimento dell’opportunità di non rinchiudere questo movimento in un capitolo della cultura passata, di non buttarlo trotzkianamente nella pattumiera della storia. Riconoscere al futurismo un posto adeguato nella genealogia del transumanesimo significa ipso facto rivitalizzarlo, riattualizzarlo, riconoscerlo come forza vitale della società contemporanea, al di là della falsa coscienza dell’industria culturale dominante e del politicamente corretto. Questa tesi verrà sostenuta sul terreno precipuo dell’ideologia, ovvero della dimensione etico-politica del futurismo, sebbene essa – come vedremo – non è separabile dalla componente estetica o artistico-letteraria.
Lo storico Emilio Gentile scrive che «il futurismo era il primo movimento artistico del Novecento che proponeva una rivoluzione antropologica per creare l’uomo nuovo della modernità, identificata con il trionfo della macchina e della tecnica, le possenti forze nuove sprigionate dal potere creativo dell’uomo, destinate a cambiare radicalmente l’uomo stesso, fino a generare una sorta di antropoide meccanico, essere disumano e sovrumano insieme, partorito dalla simbiosi fra l’uomo e la macchina»
. 1 Questo superuomo della tecnica, al contrario di quanto sembrano implicare molti romanzi di fantascienza, doveva essere moltiplicato nei sentimenti e nelle emozioni, piuttosto che essere ridotto a puro e algido raziocinio. Continua così Gentile: «L’uomo nuovo vagheggiato dal futurismo era una creatura primordiale, animata da istinti violenti di conquista e di dominio, avidamente disposta a vivere nuove esperienze, a sperimentare nuove forme di cultura, di arte e di poesia, a dominare la natura trasformandola incessantemente, e trasformando con essa l’essere umano. L’uomo futurista doveva essere in perpetua lotta con se stesso e con i propri simili per non rimanere imprigionato nel tempo e nello spazio di un presente assoggettato al passato, e distruggere ogni convenzione consacrata dall’autorità della tradizione, perennemente proteso al superamento di se stesso, alla continua ricerca della novità nel futuro»
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Se così doveva essere l’uomo moltiplicato, l’uomo nuovo, il superuomo del futuro, come agivano i futuristi del primo Novecento nella società, nella cultura, nella politica del loro tempo per prepararne l’avvento? «Precursori di questo uomo nuovo, gli artisti futuristi volevano anticipare nelle loro creazioni estetiche la nuova esperienza di una modernità definitivamente liberata da ogni legame con il passato. Per questo, essi si ribellavano contro tutto ciò che nella civiltà moderna appariva infettato dall’insidia paralizzante della tradizione, consistente nel reprimere la vitalità primordiale dell’uomo nuovo entro le convenzioni di una modernità estetica, morale, sociale e politica, addomesticata dal predominio di una razionalità pacifica, misurata, temperata, conciliante e tollerante, ispiratrice di una politica che predicava una democratica e umanitaria eguaglianza fra uomini e donne, fra nazioni e razze. I futuristi disprezzavano la modernità della società liberale borghese, che avversava la rivoluzione più che la reazione, ed era contraria alla superstiziosa preservazione del vecchio usurato, ma era altrettanto ostile all’aggressiva ricerca del nuovo mai sperimentato»
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Fin qui l’analisi di Gentile non fa una grinza. Sennonché, quando viene intervistato da Susan Dabbous per chiarire fino a che punto il futurismo è attuale, Gentile non esita a dire che il futurismo è morto e sepolto. «Non vorrei sembrarle anticlericale, ma non c’è niente di futurista nell’Italia di Benedetto XVI così come in quella di Benito Mussolini»
. 4 Insomma, ad uccidere per primo lo spirito futurista è stato il fascismo realizzato e, poi, dopo la caduta del regime, l’opera di sterilizzazione è stata proseguita dall’azione passatista delle gerarchie ecclesiastiche. Ma rimanendo alla questione della tecnica, quando gli viene chiesto dalla Dabbous se «c’è qualcosa di futurista nell’odierna società veloce, dinamica e tecnologica»
, lo storico risponde così: «Di quei miti non rimane più nulla. I futuristi erano entusiasti del progresso, noi ne siamo spaventati, loro non avrebbero mai accettato l’idea di un uomo succube della velocità. La concezione che in particolare aveva Marinetti era quella di un essere trasformato attraverso l’innesto della macchina. L’uomo moltiplicato, tecnologico, privato dei sentimenti è molto diverso dalla smarrita creatura romantica di oggi. Se il futurismo avesse realizzato la sua rivoluzione si sarebbe arrivati all’antropoide meccanico, un’autentica bestia moderna, fatta di pura vitalità, che avrebbe accettato tutto quello che oggi ci fa orrore nella modernità, compresa la sperimentazione biologica sui corpi umani. Noi, per fortuna, siamo molto più cauti»
.
Ecco, sul fatto che di quei miti non rimane più nulla non siamo affatto d’accordo. Evidentemente, Gentile non ha mai sentito parlare dei transumanisti. È lecito allora chiedersi: che cosa indica quel “noi”? Se “noi” indica la maggioranza degli italiani, può anche darsi che l’autore abbia ragione. Glielo possiamo concedere anche in assenza di un sondaggio. Ma i futuristi erano forse maggioranza alla loro epoca? Non c’era anche allora una forte resistenza del mondo tradizionale nei confronti del nuovo mondo tecnologico e industriale? Non credo che Gentile non si renda conto di questo aspetto. Dunque, è probabile che voglia dire che oggi non c’è più nessuno che sogna l’uomo moltiplicato, la fusione tra uomo e macchina, la sperimentazione sui corpi umani, per sconfiggere l’invecchiamento e la morte. E qui si sbaglia. Tra l’altro, non sa che – aldilà dei transumanisti – esiste tuttora un movimento nominalmente futurista, nato per filiazione diretta da quello di Marinetti, che è ancora vitale e non ha affatto preso le distante dai programmi del suo progenitore. 5 Per questo, a differenza di altri critici, quando parliamo del movimento di Marinetti, parliamo di “futurismo del XX secolo” o “futurismo storico” e non di futurismo tout court. Aggiungiamo infine che la sola lettura delle pagine dedicate alla scienza, nei quotidiani e nelle riviste, avrebbe aiutato Gentile a riconoscere che proprio ora – grazie allo sviluppo dell’elettronica digitale, della robotica, della nanotecnologia, dell’ingegneria genetica – sembra realizzabile la rivoluzione antropologica profetizzata da Marinetti.
Dunque, è sull’attualità del futurismo che batteremo il chiodo, ma lo faremo sgomberando sin dall’inizio il campo da alcuni possibili malintesi. Si può ritenere attuale il futurismo in due sensi alquanto diversi, a seconda che si ponga l’accento sulle forme espressive o sui contenuti espressi. Così, vi sono oggi artisti che si definiscono futuristi perché scrivono o dipingono alla maniera dei futuristi storici, pur proponendo contenuti nuovi o addirittura opposti a quelli originari. Nel contempo, vi sono intellettuali e artisti che ripropongono quelle che considerano le idee basilari del futurismo storico, utilizzando nuove forme espressive e nuovi strumenti di creazione e comunicazione, come il computer.
Di certo, nel mio approccio, c’è una forte componente soggettiva. La mia formazione filosofica e sociologica mi induce istintivamente a guardare più ai contenuti politici e ideologici che alle forme espressive. Dunque, se riconosco un rapporto tra futurismo e transumanesimo, lo riconosco al livello dell’esprit, delle idee. Detto questo, diventa anche importante individuare l’elemento originale e centrale del futurismo sul piano ideologico. Io parto dal presupposto che la pietra angolare del futurismo sia l’approccio prometeico e faustiano nei confronti della tecnologia, delle macchine, del futuro. In questo, non mi distinguo da Gentile e da molti altri interpreti. Anzi, mi pare quasi di dire una banalità, ma – per mia grande sorpresa – mi è capitato più di una volta di incontrare sedicenti futuristi che pongono il loro distinguo dal vecchio futurismo proprio sulla questione della tecnica, ovvero su ciò che a me pare più essenziale. Considero un vero e proprio nonsenso recuperare le vecchie forme artistiche per forgiare oggi un futurismo anti-tecnologico. Semmai, rimanendo in campo artistico, un futurismo aggiornato dovrebbe riproporre il culto della tecnologia in forme nuove e originali.
Ma le incomprensioni si sono verificate anche con chi pone il focus sui contenuti, sulle idee, sull’ideologia. Oltre all’orientamento prometeico e tecnofilo, i futuristi della prima metà del novecento hanno anche espresso determinate posizioni politiche. A me, queste sembrano meno decisive, per due ragioni principali: la prima è che le posizioni politiche dei futuristi non sono univoche, dal momento che variano dal fascismo al bolscevismo, dal patriottismo all’internazionalismo, dal bellicismo al pacifismo, dal liberalismo al socialismo rivoluzionario; la seconda è che esse non sono tipiche del solo futurismo, ma sono abbracciate anche da altri soggetti. Dunque, non può essere qui la specificità del futurismo. Tuttavia, cercheremo anche di distillare quello che sembra essere l’orientamento principale del futurismo storico.
Da più di mezzo secolo, i nemici del futurismo si aggrappano all’adesione al fascismo del suo fondatore Filippo Tommaso Marinetti e di alcuni importanti esponenti del movimento, per imprimere a tutto il movimento un marchio di infamia. Ciò accade, nonostante una mole impressionate di fatti e documenti storici mostri che questo accostamento è una banalizzazione della questione. Lo stesso Gentile, pur sottolineando gli innegabili punti di contatto tra il futurismo e il fascismo delle origini, ha chiarito che l’Italia di Mussolini non aveva già più nulla di futurista. Allo stesso modo riassume la questione Dino Messina, quando dice che «molti futuristi furono dirigenti del fascismo primissima maniera ma non si identificarono mai con esso, per diversi motivi, non ultimo il contrasto tra l’idealismo visionario marinettiano e l’opportunismo politico mussoliniano. A leggere il libro di Gentile si scoprono molte similitudini tra futurismo politico e fascismo, persino un’identificazione iniziale, dovuta alla comune origine combattentistica, ma mai una totale assimilazione, perché il futurismo nacque come movimento libertario, democratico, goffamente femminista. E soprattutto, dopo le prime scottanti delusioni, si riscoprì essenzialmente movimento artistico»
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Ma su questo non c’è ancora accordo unanime. Perciò, anche a fronte di tanti interessanti studi sull’argomento, non riteniamo affatto inutile dare il nostro contributo allo studio della dimensione etico-politica del futurismo, tanto più che il tema verrà qui sviscerato nell’ ottica transumanista del rapporto con la tecnica e il postumano.
Il manifesto della fondazione
Ci pare opportuno spendere innanzitutto qualche parola sulle ragioni genetiche del futurismo, sul perché dei tempi e dei luoghi di questo movimento: perché Marinetti e i suoi seguaci, in Italia, all’inizio del XX secolo, sentono l’esigenza di promuovere un’ideologia prometeica, faustiana, tecnofila?
Com’è noto, il primo manifesto pubblicato da Marinetti, Le Futurisme, appare sulla prima pagina del “Figaro” di Parigi il 20 febbraio del 1909. 7 Il decollo industriale italiano può essere situato tra il 1896 e il 1907, il manifesto appare dunque due anni dopo, proprio sull’onda dell’entusiasmo che accompagna la trasformazione dell’Italia del Nord. I contenuti di quel manifesto sono stati analizzati a più riprese da una legione di storici e critici letterari. Se riprendiamo il discorso, è perché vogliamo porre maggiore accento sugli elementi etico-politici, più che stilistici, dell’avanguardia marinettiana. Da questo punto di vista, crediamo che ci siano ancora cose da dire. Si veda per esempio il secondo paragrafo del prologo: «Un immenso orgoglio rigonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell’ora, ad essere desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che s’agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli ubriachi annaspanti, con un incerto batter d’ali, lungo i muri della città»
.
Si noti quanto Marinetti tenga a sottolineare la solitudine. Siamo soli, ripete ben quattro volte il poeta. In realtà, si può notare che i futuristi si vedono «soli con…»
. È un’ossimorica solitudine in presenza di altri esseri umani: i fuochisti delle navi, i ferrovieri, gli ubriachi delle periferie cittadine. Non si tratta dunque di solitudine di fronte alla natura, come nella tradizione romantica, ma nemmeno di una nuova solitudine di fronte a macchine o agglomerati urbani, si tratta di essere paradossalmente «soli con» altri uomini. Conoscendo l’ideologia futurista non possiamo certo ritenere questa solitudine come provocata da una distanza dei futuristi dai soggetti umani sopra menzionati, ai quali invece i futuristi vogliono comunicare una vicinanza ideale. Allora soli rispetto a chi? Rispetto agli altri intellettuali e poeti del tempo. Siamo i soli – ci dice Marinetti – che si sono accorti di quei fuochisti, di quei macchinisti ferroviari, di quegli ubriachi e sbandati delle città. Siamo i soli che si sono emozionati alla vista di quelle categorie umane nella loro nuova dimensione vitale. Di qui l’orgoglio. L’orgoglio deriva dalla consapevolezza della miopia degli altri intellettuali ed interpreti della realtà, che non vedono, non sentono o fingono di non vedere e non sentire gli straordinari cambiamenti della società italiana. Ecco una prima tensione etica: è ingiusto non dare credito agli utilizzatori delle nuove tecnologie, è giusto celebrarli.
«Sussultammo ad un tratto, all’udire il rumore formidabile degli enormi tramvai a due piani, che passano sobbalzando, risplendenti di luci multicolori, come i villaggi in festa che il Po straripato squassa e sràdica d’improvviso, per trascinarli fino al mare, sulle cascate e attraverso i gorghi di un diluvio»
. Il sussulto comunica una sorpresa. Tanto rapido è stato il mutamento della realtà sociale; tanto rapida ed inaspettata è stata l’introduzione in essa delle novità scientifiche, tecnologiche ed industriali, che la vista anche di un tramvai provoca una grande sorpresa. Ci si abitua presto ai mutamenti. Oggi tutti noi usiamo oggetti tecnologici di cui ignoriamo i principi di funzionamento e la cui esistenza era impensabile pochi anni prima. Ciononostante, dopo un primo momento di stupore e magari di sospetto, facciamo entrare questi oggetti nella nostra vita quotidiana e usarli diventa un gesto naturale e non più degno di nota, quasi come respirare. A questo atteggiamento, i futuristi si ribellano, perché sono consci che dietro lo sviluppo tecnologico ci sono scelte, volontà, decisioni, sforzi. L’indifferenza nell’accoglimento delle novità tecnologiche è pericolosa perché potrebbe condurre a vedere questo fenomeno come qualcosa che si produce da sé, come una famigliare presenza nell’orizzonte umano, come un’ovvietà. Ecco allora la seconda tensione etica: è ingiusto non stupirsi delle novità tecnologiche, è giusto celebrarne i creatori.
I futuristi vogliono sottolineare, oltreché la bellezza di questi nuovi ordigni ed oggetti, anche la loro alterità, artificialità, perfino pericolosità. Così come i romantici insistevano sulla sublimità della natura, dove il “sublime” era preferito al “bello” perché comportava un sentimento di attrazione misto a timore e non una piacevole armonia, i futuristi sottolineano la sublimità della tecnologia. Il tramvai non è difeso in quanto utile, in quanto innocuo mezzo di trasporto che rende più comoda la vita dell’uomo. Esso è paragonato alle forze distruttrici del fiume Po, elemento naturale capace di sradicare villaggi e portarli fino al mare. La tecnologia è il nuovo dio dei futuristi. Ma un dio non lo si accetta perché innocuo, buono, controllabile, sottomesso, un dio lo si adora perché fa paura, è imprevedibile, incontrollabile, ci sottomette con la sua bellezza e la sua forza. Sottolineiamo questo aspetto, perché l’idea che il futurismo si debba necessariamente chiudere con la fine dell’ottimismo tecnologico, ovvero intorno alla metà del Novecento, al sorgere della coscienza degli aspetti negativi della tecnologia (l’uso bellico delle scoperte tecnologiche, le armi atomiche, l’inquinamento, l’alienazione metropolitana, etc.), è fuorviante. Questa interpretazione non tiene conto degli aspetti a-razionali, se non irrazionali, che la dottrina futurista contiene.
Il positivismo, con la sua visione della scienza cumulativa come fatto stabilizzante, si chiude senz’altro di fronte a tragedie come la prima e la seconda guerra mondiale. Il misticismo tecnologico dei futuristi è altra cosa. L’aspetto che sta più caro a Comte è la stabilità sociale e politica e, in questo contesto ottocentesco, scienza, tecnica e industria sono visti come fattori stabilizzanti. I futuristi vedono invece nella tecnologia un mostro che merita di essere “cantato” proprio per i suoi effetti destabilizzanti. Ecco perché, di fianco al fuochista e al macchinista compare positivamente l’ubriaco, lo sbandato (l’alienato?) della periferia cittadina e industriale.
Non c’è nulla di rassicurante nella tecnologia. «La Morte, addomesticata, mi sorpassava ad ogni svolto, per porgermi la mano con grazia…»
dice Marinetti, mentre racconta la sua leggendaria corsa in automobile che lo avrebbe portato a scaraventarsi con le ruote all’aria in un fossato. L’ipotesi dell’autodistruzione è tenuta ben presente, ma essa non basta a scoraggiare l’uomo nuovo. La folle corsa in automobile, forse metafora della desiderata folle corsa del progresso tecnologico, non è ispirata da saggia riflessione («Usciamo dalla saggezza come da un’orribile guscio…»
), ma dal gusto della novità, della sorpresa, dell’incomprensibile («Diamoci in pasto all’Ignoto, non già per disperazione, ma soltanto per colmare i profondi pozzi dell’Assurdo!»
). Infatti è il deragliamento, l’uscita di strada, la perdita del controllo che provoca la gioia del conducente.
Certamente, c’è un grande ottimismo nell’ideologia futurista. L’automobile (al maschile) viene ripescato dal fosso e sembra morto, ma «una carezza bastò a rianimarlo»
ed ecco di nuovo il prodigio della tecnica in corsa con a bordo i futuristi, «contusi e fasciate le braccia, ma impavidi»
. Insomma, una disavventura metaforica nella grande avventura dell’umanità che si impegna a sfidare le stelle.
La letteratura futurista e le altre forme d’arte e di cultura proposte da questo movimento si impegnano dunque a rappresentare aspetti della realtà non visti o negati da altre correnti letterarie, ma anche ad infondere coraggio alla società stessa, a spronarla ad andare avanti sulla strada del progresso tecnologico. Si tratta di andare avanti al di là del calcolo utilitaristico, dei benefici che se ne possono trarre sul piano economico; si tratta di avanzare per il solo gusto dell’avventura. La terza tensione etica è proprio questa: è ingiusto glorificare la tecnica solo in base alla sua utilità pratica, essa va celebrata comunque, va vista come un fine, non come un mezzo. L’innovazione è dunque proposta come norma etica della tecnica, a prescindere dalla desiderabilità degli effetti.
Arriviamo così al cuore del manifesto fondativo del futurismo, ormai inteso come opera letteraria in sé, oltreché proclama programmatico di metaletteratura.
Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia alla temerità.
Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi, il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale at-traversa la terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificienza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.
Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare e misteriose porte dell’Impossibile? Il tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, perché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori o polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole come un luccicchio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scintillante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.
Non si può negare che, qui, Marinetti non intenda solo informare sulla sua volontà di produrre un certo tipo di poesia. L’autore vuole anche mostrare come sia possibile una poesia che abbia come soggetto operai, arsenali, cantieri, stazioni, officine, ponti, piroscafi, locomotive ed aeroplani. Non è un linguaggio prosastico e informativo quello che percorre il manifesto. C’è in esso una tensione lirica che lo eleva ad opera d’arte. Tuttavia, come più volte annunciato, più che gli aspetti stilistico-letterari, a noi interessano i contenuti etico-politici. Il coraggio, l’audacia, la temerità, l’ardore, la munificenza sono tutte categorie etiche e, precipuamente, virtù del mondo antico, pagano, eroico. Così come un’istanza etica è la critica contro «ogni viltà opportunistica e utilitaria». Ossia, l’esaltazione del gesto disinteressato.
Diversi contenuti riescono ben comprensibili sulla base di quanto finora detto, mentre altri punti meritano ulteriori approfondimenti. Per esempio, il punto terzo vorrebbe evidenziare una rottura verso il passato, portando in auge i temi dell’aggressione, della violenza, della lotta. In realtà, questa ci pare una delle tematiche meno originali del futurismo, se solo si pensa che gran parte della letteratura poetica e prosastica del passato contiene violenza, essendo incentrata su epiche gesta di guerrieri. La situazione non cambia nemmeno se si interpreta il passo come un invito a cantare la violenza gratuita. Basta infatti richiamare De Sade, che pone la violenza sessuale come elemento centrale della sua letteratura, per capire che non è qui la vera originalità del futurismo.
Tra l’altro – facendo un parallelo con la situazione odierna – la supposta violenza delle rappresentazioni futuriste impallidisce di fronte a quella dei romanzi e dei film che passano oggi sullo schermo. Che si tratti di ricostruzioni storiche, di storie fantascientifiche, di racconti del terrore, di intrighi polizieschi o di vicende belliche, le rappresentazioni letterarie o cinematografiche prodotte negli ultimi trent’anni tendono sempre più a risolversi in orrende carneficine al limite del grottesco. Evidentemente, c’è un mercato florido per la fiction violenta, ma non sappiamo fino a che punto i futuristi possano essere considerati antesignani di queste tendenze.
Il motivo per cui riteniamo errato vedere i futuristi come indiretti responsabili della qualità e dei contenuti dei prodotti letterario-cinematografici odierni, è quanto affermato nel punto sette. Qui si dice che la lotta, la violenza debbono servire a costringere le forze ignote a prostrarsi di fronte all’uomo. C’è insomma una sfida dell’uomo all’universo dalla quale l’uomo deve uscire vincitore. Il che significa che alla base del futurismo c’è un “umanesimo” o, ancora meglio, un superumanesimo. Nella letteratura e nel cinema della violenza di oggi, invece, l’uomo è perdente, alienato, nullificato. Gli effetti splatter, i cervelli spappolati, le ossa che si spezzano, gli occhi che schizzano, le urla di terrore, sono a rappresentare l’intrinseca debolezza dell’uomo, se non la sua assoluta nullità, di fronte alla prepotenza degli altri uomini, alle forze della natura, alle perversioni della tecnologia o di altre potenze ignote. Tutto questo è quanto di più lontano possa esistere dallo spirito futurista, che vede nell’uomo un artista libero, ottimista, gioioso e spensierato che sfida il mondo e vince la sua sfida grazie alle doti dell’ingegno e del coraggio.
Etica ed estetica superomista
Emilio Gentile afferma che il futurismo è morto, perché “noi” oggi abbiamo paura della tecnica. Ma com’era la situazione nel 1909? In realtà, anche in quel frangente il discorso futurista suonava provocatorio e anticonformista.
I futuristi entrano sul palcoscenico della storia, facendosi portatori di una visione prometeica all’ennesima potenza, proprio quando, svanito l’iniziale entusiasmo positivista, la società industriale viene messa sotto processo sul piano politico e morale. I positivisti avevano presentato l’avvento della società industriale come la fine della storia, come la realizzazione di quell’Eden dispensatore di benessere e stabilità che avrebbe riportato la pace in Europa e nel Mondo, dopo il crollo del mondo feudale medievale (ammirato da Auguste Comte per la sua statica armonia) e le turbolenze rivoluzionarie dell’età moderna. Proprio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, i critici del positivismo, da destra e da sinistra, mettono in luce i “difetti” della società industriale, che siano lo sgretolamento delle antiche tradizioni o lo sfruttamento dei lavoratori. La società industriale non rappresenta quel paradiso che era stato annunciato, non è stabile e armonica, perciò va superata in un senso o nell’altro. I futuristi stupiscono il mondo spostando il discorso su un piano completamente diverso, operando un capovolgimento di tutti i valori: la società industriale, la civiltà delle macchine, va scelta proprio perché è instabile, perigliosa, mutevole, caotica, e non nonostante questo. La tecnica è da scegliere perché porta ad una rivoluzione permanente, ad una società dinamica. La tecnica è da scegliere perché impedisce la fine della storia, la stabilità, la sicurezza, che poi altro non sono che monotonia, sonnolenza, malattia.
Poiché Marinetti e i suoi seguaci furono innanzitutto poeti e artisti, il futurismo trova oggi ampio spazio nelle storie dell’arte e della letteratura e quasi nullo nella storia delle dottrine politiche e filosofiche o nella storia tout court. Deve però essere chiaro che, più che di una letteratura futurista, bisogna parlare di una cultura futurista. Infatti, la poesia e la narrativa rappresentano solo una componente dello sforzo artistico prodotto da questo movimento, impegnato su un ampio fronte che includeva la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, il cinema, il teatro, la danza, la cucina, la moda, la politica e la filosofia.
I futuristi, aprendosi a tutte le manifestazioni dello spirito, abbattono la distinzione tra arte e vita, proponendo il concetto di arte-vita. La conseguenza più diretta di questo approccio è che il futurismo, nel suo complesso, finisce per rappresentare un’idea di “buona vita” e, dunque, una visione etica – pur in un’ottica di capovolgimento di tutti i valori e in un quadro di relativismo morale. Con le loro opere artistiche e i loro comportamenti pubblici – due dimensioni spesso indistinguibili – i futuristi pongono costantemente al centro dell’attenzione la questione fondamentale dell’etica: come dobbiamo vivere? Essi si interessano a tutti gli aspetti comportamentali della vita: come dobbiamo parlare, come dobbiamo vestire, come dobbiamo mangiare, come dobbiamo camminare, come dobbiamo rappresentare il mondo, come dobbiamo combattere, come dobbiamo fare l’amore, come dobbiamo riprodurci, come dobbiamo produrre, come dobbiamo relazionarci agli altri esseri umani, come dobbiamo relazionarci alle macchine. Inoltre, poiché la risposta ai quesiti sui comportamenti desiderabili mette costantemente al centro dell’attenzione la tecnologia, ecco che il futurismo si qualifica non soltanto come una dottrina etica, ma in modo precipuo come una dottrina tecnoetica. E, infine, poiché la tecnica è vista in termini estremamente positivi, al punto che si arriva a parlare di macchinolatria, il futurismo si qualifica come un caso esemplare di dottrina tecnoetica prometeica, faustiana, transumanista.
Quest’ultima ci appare come una verità talmente ovvia che potrebbe sorgere addirittura un dubbio riguardo all’utilità del presente saggio. Eppure, il dubbio non ha ragion d’essere. Eliminare il futurismo storico da una genealogia del transumanesimo, adducendo a scusa l’ovvietà della loro posizione favorevole alle tecnologie potenzianti, sarebbe come eliminare il cattolicesimo da una storia del cristianesimo, adducendo a scusa l’ovvietà della presenza dei cattolici nel consorzio cristiano. A volte, l’ovvietà porta al disconoscimento. Considerazione che ha portato Marshall Mc Luhan a formulare un celebre detto: «Non so chi ha scoperto l’acqua, ma di sicuro non sono stati i pesci»
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L’aspetto più interessante del futurismo è che il principio di eutecnìa, di bontà della tecnica, non viene fondato o dimostrato sulla base di argomenti etici tradizionali, del tipo: è il volere di Dio (morale religiosa), è una legge di natura (giusnaturalismo), produce benessere, piacere, felicità (utilitarismo, edonismo). Nella prospettiva futurista, la tecnica non è buona perché giusta, in uno qualsiasi dei sensi sopra esplicitati, la tecnica è buona innanzitutto perché è bella. In altre parole, il principio di eutecnìa ha un fondamento estetico. Non è la prima volta nella storia che si cerca di costruire un parallelo tra etica ed estetica. Il legame tra le due dimensioni è espresso anche dal concetto greco di kalokagathia (кαλος και αγαθος ─ kalos kai agathos: bello e buono), secondo il quale la virtù morale si sposava con un corpo bello e armonioso. Gli stessi teologi islamici sostengono talvolta che il Corano è vero perché è bello, perché è scritto bene. È però la prima volta che si sostiene che la bontà della tecnica sta nella sua bellezza, più che nella sua utilità.
Ciò che avvicina futurismo e transumanesimo è soprattutto il fatto che, vicino all’esaltazione della macchina, si trova in entrambe le visioni un chiaro atteggiamento superomista o postumanista. Alla questione: come dobbiamo vivere? La risposta dei futuristi è chiara: oltre le possibilità umane! Marinetti e i suoi seguaci non esitano dunque a mettersi sulla strada indicata da Friedrich Nietzsche, il quale indicò nel superuomo il senso della Terra. Tuttavia, sono più espliciti del filosofo tedesco nell’esaltare il ruolo della tecnica in questa trasformazione antropologica.
Nel profetico saggio del 1910 L’Uomo Moltiplicato ed il Regno della Macchina, Marinetti indica infatti nella fusione tra la macchina e l’uomo la strada da seguire per superare il problema dell’invecchiamento e della morte. Probabilmente, si tratta un fatto inedito nella storia umana. Se nel passato l’indiamento, il transumanare, il tendere a condizioni divine o sovrumane era stato legato geneticamente all’illuminazione che deriva dalla conoscenza del mondo, 8 ora è la scienza applicata, la tecnologia, ad essere indicata come lo strumento che deve farsi carico del problema.
Noi aspiriamo alla creazione di un tipo non umano… Bisogna preparare l’imminente e inevitabile identificazione dell’uomo col motore, facilitando e perfezionando uno scambio incessante di intuizione, di ritmo, d’istinto e di disciplina metallica…
Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono delle ali […] Il tipo non umano e meccanico, costruito per una velocità onnipresente, sarà […] dotato di organi inaspettati: organi adatti alle esigenze di un ambiente fatto di urti continui. Possiamo prevedere fin d’ora uno sviluppo a guisa di prua della sporgenza esterna dello sterno, che sarà tanto più considerevole, inquantoché l’uomo futuro diventerà un sempre migliore aviatore. Uno sviluppo analogo si nota appunto, fra gli uccelli, i migliori volatori. […]
L’uomo moltiplicato che noi sogniamo, non conoscerà la tragedia della vecchiaia!
Il concetto è ribadito nelle battute finali del Manifesto tecnico della letteratura futurista (11 maggio 1912): «Mediante l’intuizione, vinceremo l’ostilità apparentemente irriducibile che separa la nostra carne umana dal metallo dei motori. Dopo il regno animale, ecco iniziarsi il regno meccanico. Con la conoscenza e l’amicizia della materia, della quale gli scienziati non possono conoscere che le reazioni fisico-chimiche, noi prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall’idea della morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione dell’intelligenza logica»
.
L’uomo moltiplicato o l’uomo meccanico dalle parti cambiabili rappresentano la concezione futurista del superuomo, che si realizza attraverso un’innovazione tecnica sostenuta dall’intuizione poetica. A dimostrazione del fatto che l’imperativo etico del superamento dell’uomo non è una provocazione estemporanea di Marinetti, ma un punto programmatico recepito e sviluppato da altri futuristi in tempi successivi, possiamo citare un passo tratto dal manifesto Vita simultanea futurista, di Fedele Azari: «Velocità=vita moltiplicata. Quando la chirurgia meccanica e la chimica biologica avranno prodotto un tipo standardizzato di uomo-macchina resistente, illogorabile e quasi eterno, i problemi della velocità saranno meno assillanti d’oggi. La durata attuale della nostra esistenza è spaventosamente breve in confronto alle possibilità intellettuali che si sviluppano proporzionalmente all’esperienza vissuta e sono subito troncate dalla vecchiaia e dalla morte. Uno dei mezzi coi quali l’uomo tenta di prolungare la propria esistenza è la velocità. La relativa rapidità raggiunta dalle comunicazioni e dai trasporti moderni ha già raddoppiato o triplicato la nostra razione di vita»
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L’assurdità di una vita così breve, a fronte di tutte le piacevoli esperienze che un essere senziente potrebbe fare in questo vibrante mondo in trasformazione, è un tema ricorrente della retorica transumanista. Così come l’idea di trovare una soluzione tecnico-scientifica a questo spiacevole inconveniente.
Il tema dell’uomo nuovo è presente anche nella poesia e nella narrativa futurista. Il poema “Scalata”, di Libero Altomare, sviluppa per esempio il tema superomistico della scalata al cielo, vedendo proprio nella tecnologia lo strumento che consente all’uomo di elevarsi al di sopra di se stesso e di porsi come dominatore nei confronti delle forze della natura. Nella narrativa, gli intenti e i caratteri rivoluzionari del futurismo si fanno ancora più evidenti. Due tra i romanzi più noti della letteratura futurista sono Il codice di Perelà di Aldo Palazzeschi e Mafarka il futurista di Filippo Tommaso Marinetti.
Sul piano stilistico, Il codice di Perelà appare molto innovativo, tanto da guadagnarsi la definizione di “antiromanzo”. Sul piano dei contenuti è invece più ambiguo, prestandosi a diverse interpretazioni. Il linguaggio è allegorico, l’atmosfera è fiabesca e surreale, e al centro del discorso c’è ancora una volta il concetto di “uomo nuovo”. Nonostante l’uomo nuovo sia presentato come superiore all’uomo tradizionale, lo è per la sua leggerezza e distanza, non per la sua forza, il suo dinamismo, i suoi schiaffi e i suoi pugni. I temi dell’aggressività, della forza, della guerra, propagandati dai manifesti marinettiani, non appartengono all’orizzonte di Palazzeschi. Ma va anche precisato che non appartengono necessariamente alla cultura prometeica o transumanista in senso più ampio. Questo per dire che la loro assenza non rende ipso facto epimeteico o bioluddista il romanzo di Palazzeschi.
Perelà, il protagonista del racconto, è un uomo di fumo. Scende sulla terra, in una città senza nome, per salvare l’umanità, dando ad essa un Codice. Perelà suscita ammirazione tra la gente per la sua leggerezza e per la sua capacità di sfidare le leggi gravitazionali, e inizialmente viene accolto da notabili e dame di corte. Gli viene effettivamente affidato l’incarico di redigere il Codice, ma la morte del servitore Alloro lo fa cadere in disgrazia. Sottoposto ad un processo surreale, viene condannato al carcere a vita, ma la pena infittagli dagli uomini non lo può colpire, perché egli è legato alla terra solo in virtù degli stivali che indossa. Gli è sufficiente toglierli, per lasciare la cella ed ascendere verso il cielo e verso il sole.
Si notano nel romanzo gli elementi tematici della trasformazione sociale o della rivoluzione (la società deve essere cambiata), caratteristici tanto del futurismo quanto della cultura progressista in senso lato. Resta però evidente il pessimismo antropologico che caratterizza il racconto: l’uomo nuovo non è capito ed è, perciò, osteggiato e sconfitto. 10 Si può concludere che Perelà è l’uomo nuovo in quanto homo tecnologicus, a patto che si interpreti il fumo che lo costituisce come una metafora del mondo industriale. Il mondo in cui scende il protagonista è il mondo borghese, capitalista e industriale di inizio secolo. Se vale dunque questa interpretazione dell’uomo nuovo, il processo intentato nei confronti di Perelà non può che essere visto come un processo che la società borghese e industriale intenta schizofrenicamente contro se stessa. Proprio del mondo borghese, Palazzeschi denuncia tutta l’insufficienza. In un passo del racconto, fa capire piuttosto chiaramente che egli non vede nella tecnologia la condizione sufficiente per rinnovare la società. L’uomo resta fondamentalmente lo stesso anche se si circonda di macchine, giacché per questi le macchine non sono un fine, ma semplicemente un mezzo di arricchimento. Il passo illuminante si trova nel momento cruciale del racconto, quando il protagonista, condannato all’ergastolo, viene condotto in carcere.
Il corteo è nella via intrecciata da grida, insulti, lazzi, come da stelle filanti, da una finestra viene giù un grosso sputo che cade ai piedi del condannato. Perelà non si volge, ma siccome l’esempio è imitato, i tamburi si fanno da parte sulle righe della folla cercando di allontanarsi tutti dal bersaglio più che sia possibile. Ecco un altro, un altro, un altro, la gente incomincia a fuggire, i soldati si fanno sempre più indietro, Perelà rimane solo in mezzo, immutabile sotto la grandinata di liquide frecce. – Ciò, cià, sciuù, crptù, crplah, crsciù – da tutte le parti piovono manubri di mercurio, lucenti grigiastri, gialli, enormi che si vanno a squagliare in terra come chiari d’uovo… tutti ànno smesso di gridare ed esprimono così il loro disgusto.
Gli uomini che per tutte le cose della loro vita ànno inventato macchine e ordigni così complicati, quando vogliono esprimere il loro disprezzo, quando vogliono gettare in faccia ad un essere odiato l’insulto più atroce, si servono di ciò che di più intimo custodisca il loro seno. 11
In questa fase finale dell’antiromanzo ci pare di notare una certa distanza di Palazzeschi dal futurismo marinettiano. Qui si dà chiaro risalto alla sconfitta, al pessimismo di fronte al progetto di riforma della società borghese. Persino l’immagine ed il ruolo che assumono i soldati tradiscono una disaffezione nei confronti del militarismo propagandato dai manifesti. Quello dell’autore non deve però essere visto come un residuo di passatismo, ma come un progressismo di segno diverso. Non stupisce infatti che Palazzeschi prenderà le distanze dal movimento proprio allo scoppiare della Prima guerra mondiale, ossia quando Marinetti proporrà il futurismo come forza trainante dell’interventismo italiano.
Mafarka il futurista condivide con Il Codice di Perelà la scelta antirealistica e favolistica, però, a differenza dello scritto di Palazzeschi, propone un tema tipicamente prometeico e transumanista: la creazione dell’uomo alato. Ancora una volta c’è “l’uomo nuovo” e anche questo è un uomo che vola, ma si tratta di un essere artificiale. Gazurmah, automa e semidio alato, è infatti progettato e costruito proprio da Mafarka il futurista, protagonista del romanzo.
Il romanzo è diviso in dodici capitoli. Le avventure del protagonista sono soprattutto di carattere bellico ed erotico, tanto che il libro comincia con una vittoriosa battaglia e con uno stupro di massa (“Lo stupro delle negre”). Nel secondo capitolo (“Lo stratagemma di Mafarka-el-Bar”) compare il tema del superamento dei limiti biologici umani. Il pene di Mafarka viene infatti modificato da un Demonio e raggiunge la lunghezza di undici metri. 12 La modifica è ottenuta con l’inganno, facendo ingerire al protagonista il membro di un cavallo indomabile. Il priapismo indotto si ritorce però contro lo stesso artefice della modifica, giacché Mafarka, succube del suo inedito vitalismo sessuale, possiede prima tutte le schiave del Demonio e poi mette in fuga quest’ultimo.
Significativamente, nel capitolo terzo (“I cani del sole”), Mafarka ottiene la vittoria in battaglia contro i cani rabbiosi e affamati del deserto grazie ad animali meccanici: le «giraffe da guerra». 13
Nell’ottavo capitolo (“Gl’Ipogei”) emerge con prepotenza il tema postumanista. È proprio qui che Mafarka, mentre è intento a navigare in direzione degli “Ipogei di Kataletoro”, concepisce l’idea di dar vita a un figlio meccanico e immortale, «sublime uccello del cielo, dalle ali melodiose»
. In realtà, si tratta di un figlio-fratello (esattamente come sarebbe oggi un clone), perché agli Ipogei, il protagonista incontra le ombre dei genitori morti e promette alla madre Langurama di darle un nuovo figlio, per compensare la perdita del fratello Magamal che era in precedenza impazzito e deceduto.
Nel capitolo successivo (“Il discorso futurista”), Mafarka annuncia al popolo la sua nuova missione, ovvero forgiare la propria volontà, procreando «dalla propria carne, senza il concorso e la puzzolente complicità della matrice [vulva], un gigante immortale dalle ali infallibili»
. Arringa una folla di seguaci esclamando che, per essere futuristi, occorre «credere nella potenza assoluta e definitiva della volontà, che bisogna coltivare, intensificare, seguendo una disciplina crudele»
. Paradossalmente, travolti dall’entusiasmo per l’annuncio della creazione dell’essere immortale, molti dei discepoli muoiono infrangendosi su una scogliera.
Lo stesso accade nel capitolo successivo (“I fabbri di Milmillah”), dove la morte dell’uomo si accompagna ancora una volta alla creazione dell’essere postumano immortale. Per realizzare Gazurmah, il figlio alato, più di cento operai muoiono di stanchezza. A questo punto Marinetti stupisce i suoi lettori. Dopo l’ennesima avventura erotica del protagonista, stavolta con due contadine, l’autore inscena un conflitto tra due categorie di lavoratori: i fabbri di Milmillah, creatori del mostro alato, e i tessitori di Lagahourso. I primi sono «lavoratori dalle braccia possenti come leve», mentre i secondi sono «gracili e tremanti». Mafarka spiazza tutti, lodando davanti ai fabbri l’intelligenza dei tessitori, «l’ingegnosità sottile che manca a voi». Per dire, forse, che l’aggressività e la forza non hanno futuro, senza una guida intellettuale.
Nel capitolo undicesimo (“I velieri crocefissi”), dopo essere sfuggito alle tentazioni di una donna misteriosa, Mafarka scopre che i lodati tessitori di Lagahourso hanno massacrato con l’inganno i fabbri di Milmillah e si infuria. Costringe, quindi, i tessitori a rimontare le ali di Gazurmah. E siamo così giunti all’epilogo.
Nell’ultimo capitolo (“La nascita di Gazurmah, l’eroe senza sonno”), Mafarka presenta l’essere meccanico alla mummia della madre, quindi, baciandolo sulla bocca trasferisce nella creatura la propria anima e muore. Gazurmah, semidio alato della meccanica, si alza in volo, sconfigge i venti e si avvia verso il sole, per detronizzarlo e assumere il dominio dell’universo.
Con un deliberato anacronismo, potremmo dire che il bacio mortale di Mafarka a Gazurmah è una metafora del mind-uploading, tema caro ai transumanisti. Ma la morte del creatore per dare vita alla creatura può essere più plausibilmente vista come la rappresentazione del salto evolutivo, in cui la specie madre scompare per dare vita alla specie figlia. In altre parole, il bacio mortale potrebbe simboleggiare il tramonto dell’uomo auspicato da Nietzsche in Also Sprach Zarathustra: «Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione… Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo. Io amo colui che vive per la conoscenza e vuole conoscere, affinché un giorno viva il superuomo. E così egli vuole il proprio tramonto»
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Un’ideologia “di sinistra”
I critici occasionali e poco informati risolvono la collocazione politica del movimento futurista sovrapponendolo meccanicamente al fascismo. In realtà, il quadro è molto più complesso, se non addirittura opposto a quello che certa storiografia superficiale propone.
È vero che il fondatore del futurismo era legato a Mussolini da personale amicizia. È pure vero che il fascismo attinse a piene mani dal frasario, dagli slogan e dall’ideologia futurista, a partire da «marciare, non marcire!»
, coniato nel 1915. È vero anche che molti futuristi aderirono al fascismo o che, comunque, vennero a patti con il regime. Tuttavia, c’è pure una mole impressionante di fatti storici che rivela quanto incauta sia una semplice riduzione del futurismo a movimento “di destra” o spiccatamente “fascista”. Tra l’altro, si potrebbe anche aprire un dibattito per decidere fino a che punto il fascismo stesso fu un movimento di destra piuttosto che di sinistra – e che cosa si intende per destra e sinistra. Ma questo ci porterebbe troppo lontano dai nostri intenti.
Partiamo da un dato. Il futurismo – nella sua ansia di porsi come momento assolutamente nuovo della storia – fu fortemente critico verso la destra conservatrice, la sinistra riformista e il centro cattolico, in Italia come all’estero, per cui sfugge di necessità alle categorie dominanti, ora come allora, della politica. Inoltre, i fatti “misconosciuti” cui accenniamo indicano che il movimento futurista, nonostante le sue origini borghesi e patriottiche, ebbe una straordinaria affinità elettiva con la sinistra radicale e rivoluzionaria. Molto più che con la destra reazionaria.
Intanto, il fatto più macroscopico è che i futuristi di Vladimir Majakovskij aderirono di slancio al comunismo e alla rivoluzione d’Ottobre, suscitando il plauso di Leon Trotskij. 14 Ma ancora più significativa fu la reazione di Marinetti, non meno entusiasta di quella di Trotskij: «Sono lieto di apprendere che i futuristi russi sono tutti bolscevichi... Le città russe, per l’ultima festa di maggio, furono decorate da pittori futuristi. I treni di Lenin furono dipinti all’esterno con dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di Balla e di Russolo. Questo onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra»
. 15
Se nel 1917 i futuristi russi diedero l’assalto al Palazzo d’Inverno, nel 1919 i futuristi italiani si arruolarono numerosi nella Legione di Gabriele D’Annunzio e furono protagonisti dell’impresa di Fiume. Ancora una volta, solo uno sprovveduto può vedere in questo gesto un’iniziativa “fascista”. È noto infatti che il regime fascista si appropriò successivamente di questa impresa, nonostante i suoi protagonisti avessero realizzato un esperimento politico di tutt’altro segno.
Illuminanti, a tal proposito, sono le parole di Franco “Bifo” Berardi, intellettuale comunista con una passata militanza in Potere Operaio.
Lasciatemi raccontare di Fiume nel 1919. È un’esperienza molto interessante che mostra la prossimità del futurismo italiano alla rivoluzione internazionale di quegli anni. Alla fine della guerra, al congresso per la pace di Versailles, il ministro degli esteri italiano Giorgio Sonnino chiese la concessione della Dalmazia e dell’Istria, il triangolo fra Trieste e la Yugoslavia. A quel tempo, gli italiani erano trattati dai francesi e dagli inglesi con derisione e nessuno prese la richiesta seriamente. Il ministro degli esteri italiano passò alla storia per essere scoppiato in lacrime ed aver lasciato la conferenza. L’Italia era assente alle fasi finali del Congresso di Versailles. Questo è il sentimento di base del fascismo: il proletariato italiano ha combattuto e vinto la Guerra, ma gli italiani sono considerati appunto proletari e perciò non ci è dato ciò che è nostro: Fiume. Qui nasce l’idea fascista della “vittoria mutilata” che fu così importante nella propaganda di Mussolini. Quindi, i futuristi, guidati da Gabriele d’Annunzio – un poeta italiano che merita di essere conosciuto all’estero che fu influenzato dal movimento simbolista e che, pur non essendo futurista, era vicino a quegli ambienti – andarono come milizia privata in Istria, occuparono la città di Fiume e proclamarono la Libera Repubblica di Fiume, alleata con la comunista Unione Sovietica. Furono i primi a dichiarare l’alleanza con l’emergente partito comunista. 16
A conferma di quanto dice Berardi, giova a questo punto citare le parole dello stesso Gabriele D’annunzio: «Qualunque sforzo di liberazione non può che partire da Fiume, dove le nuove forme di vita non soltanto si disegnano ma si compiono; dove il cardo bolscevico si muta in rosa italiana: in rosa d’amore»
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Va detto per correttezza che D’Annunzio non era convinto fino in fondo dell’alleanza con i bolscevichi. Quando si prospettò la possibilità di unire le forze per sferrare un attacco decisivo, volto a liberare l’Italia dalla monarchia, dal Papato e dalla corrotta classe dirigente, D’Annunzio si tirò indietro, rifiutandosi di incontrare Gramsci. E, tuttavia, il riferimento al cardo bolscevico è lì a dimostrazione del fatto che le forze che guidava a Fiume avevano quell’orientamento.
Ma proseguiamo con le parole di Berardi: «Quindi, il sentimento generale in Italia in quel periodo era che il proletariato italiano stava combattendo fianco a fianco con il proletariato dell’Unione Sovietica contro i plutocrati e gli imperialisti della Francia e della Gran Bretagna. Il governo di Fiume durò sei mesi e la sua storia è sepolta. È stata un’esperienza estrema del divenire estetico della politica, che è un processo molto ambiguo che coinvolge non solo fascisti e comunisti ma anche la pubblicità in generale: è il vero linguaggio politico del XX secolo. Sottolineo che nell’impresa di Fiume molta gente veniva dall’anarchismo internazionale, come Bakunin e Malatesta, con l’intenzione di creare un’alleanza con coloro che erano de facto proletari italiani (la parola fascismo non esisteva ancora)»
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Berardi afferma giustamente che si tratta di storia sepolta… se non addirittura presentata in modo fuorviante dalla manualistica. La Carta del Carnaro, la Costituzione di quella Repubblica durata mezzo anno e soppressa dal governo italiano non senza spargimento di sangue, era molto avanzata per l’epoca. Come recita l’articolo 2, si trattava infatti di una «democrazia diretta che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali. Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra, per quanto è possibile, i poteri dello Stato, onde assicurare l’armonica convivenza degli elementi che la compongono»
. 17
Ecco allora che, se i futuristi erano patrioti, lo erano nello stesso senso in cui lo erano stati Garibaldi e Mazzini. La sovrapposizione di patriottismo e fascismo, o addirittura razzismo, è una proiezione anacronistica. Nella Carta non c’è traccia di razzismo. Anzi vi è un esplicito rifiuto di ogni forma di discriminazione, anche nei confronti delle donne, che in Italia hanno avuto il diritto di voto solo nel dopoguerra, e dei proletari che nella madrepatria erano discriminati sotto molti punti di vista (i diritti politici erano rimasti limitati per reddito e alfabetismo sino a quel periodo e i diritti sociali erano quasi nulli). Qui, addirittura, vengono accordati maggiori diritti agli operai, ai lavoratori, ai produttori, e diritti sociali a tutti. Si legge infatti: «La Costituzione garantisce inoltre a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, l’istruzione primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l’uso dei beni legittimamente acquistati, l’inviolabilità del domicilio, l’habeas corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere»
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L’antirazzismo e l’orientamento sinistroide non può stupire. Dopo la Partenza di Marinetti e Vecchi, nell’ottobre del 1919, furono Mino Somenzi e Mario Carli a prendere il comando della spedizione futurista. Somenzi era un mantovano di origini ebraiche che, politicamente, era legato alla sinistra radicale dei Fasci di Combattimento. Distribuì per le strade di Fiume un memorabile documento futurista: Il ballo di San Vito. Primo quaderno della Yoga, 18 in cui si appellava alla cittadinanza chiedendo di fare proprio lo spirito vitalistico degli Ardito-Futuristi. Chiedeva di distruggere la cultura borghese perbenista, demolire ogni altare e contrastare il potere delle banche. Soprattutto, invitava le donne ad uscire dal ruolo che la “putrida morale” del mondo maschilista aveva loro assegnato. Lo spirito antirazzista, femminista, socialista della Carta si riverberava dunque anche nella prosa e nella poesia. Ma, per Somenzi, la distruzione doveva essere solo una prima fase, alla quale doveva seguire la fase della costruzione di un nuovo ordine sociale dove tutto era possibile, in un’atmosfera di genialità ed incandescente follia.
Bisogna stare attenti a non interpretare parole e simboli, emersi nel 1920, alla luce dell’uso che di quelle parole e di quei simboli verrà fatto successivamente. Sui documenti dell’Unione della Yoga – Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione – appare in bella mostra una svastica, simbolo sacro dell’induismo e del buddhismo, e si legge: «Yoga – unione nel senso più aristocratico della razza; di quella aristocrazia che da Ronchi a Fiume oltre al Carso, oltre all’acciaio, colle mascelle quadrate dal dominio dal volere più forte della morte, ci ha portati in pieno giorno ad annientare l’Europa. Fummo ricoperti di lauro!»
19 Se si tiene presente che mancano due anni alla presa del potere di Mussolini, che Hitler trionferà solo nel 1933, e che la guerra inizierà nel 1939, ossia quasi vent’anni dopo, capia-mo bene che dobbiamo collocare queste parole e questi simboli in un contesto affatto diverso.
Ci spiega lo storico Günter Berghaus che «i membri [della Yoga] erano comunisti e anarchici, bolscevichi e socialisti alla William Morris, bohemien e nichilisti, nietzschani e rosacrociani, sognatori rousseauiani e utopisti proudhoniani». 20 Oltre che con i futuristi di Marinetti, intrattengono rapporti con i futuristi-comunisti del circolo di Torino, con i dadaisti tedeschi e con i bolscevichi russi e ungheresi. Va inoltre detto che l’Unione Yoga critica il culto della tecnologia a-umana del futurismo marinettiano e mette molto più in risalto l’aspetto liberatorio dell’amore e della conoscenza pura, tesa a svelare i segreti dell’universo.
Dunque, chi interpretasse la svastica e i riferimenti alla razza aristocratica e alle mascelle quadrate come un’adesione agli ideali del nazifascismo, così come li capiamo oggi, compirebbe un errore storiografico madornale. Oggi associamo il nazifascismo alle leggi razziali, all’olocausto degli ebrei, alla protezione degli interessi capitalistici e alla Seconda guerra mondiale, ma non c’è nulla di tutto questo nell’orizzonte mentale di Somenzi e dei suoi compagni fiumani. E non ci poteva essere, perché tutto questo è accaduto dopo, e perché lo stesso Somenzi era ebreo. Tanto che Mussolini, quando promulgò le leggi razziali nel 1938, introdusse un apposito comma che rendeva esenti dalle discriminazioni e dalle persecuzioni i Legionari Fiumani, proprio perché sapeva che all’impresa avevano partecipato intellettuali e combattenti di origine ebraica. 21
Anche la figura di Mario Carli crea non pochi problemi agli storici che vorrebbero semplicemente collocare “a destra” il futurismo. Carli aderì al movimento di Marinetti negli anni Dieci e partecipò alla Prima guerra mondiale. Al ritorno, fondò l’Associazione Arditi d’Italia. Gli arditi (o “Fiamme Nere”) erano un corpo speciale avente funzione di truppe d’assalto. Le esigenze, nel 1917, di dar vita a questi reparti «furono puntualmente colte da Antonio Gramsci il quale attribuì la nascita dei reparti di Arditi alla necessità di accrescere la combattività dell’esercito stimolando, contemporaneamente, uno Stato maggiore considerato burocratizzato e fossilizzato»
. 22
Nei tumultuosi anni del dopoguerra, gli arditi e i futuristi si avvicinarono al fascismo. Ma ad attirarli era il fascismo del programma di San Sepolcro, molto orientato in senso libertario e socialista, repubblicano e futurista, antiborghese e anticlericale, tecnofilo e progressista. Mussolini affermava allora: «Noi siamo decisamente contro tutte le forme di dittatura, da quella della sciabola a quella del tricorno, da quella del denaro a quella del numero; noi conosciamo soltanto la dittatura della volontà e dell’intelligenza»
. 23
La divergenza tra Mussolini e Carli riguarda il giudizio sul bolscevismo. Per Mussolini si trattava dell’ennesima dittatura di un’elite, adatta al popolo russo ma non a quello italiano, mentre per Carli era un esempio da seguire. Nonostante queste divergenze, «per tutto il 1919, e per la prima parte del 1920, futurismo, fascismo e arditismo costituirono un “blocco organico”. Il momento d’incontro fra arditismo e fascismo avvenne nei primi mesi del 1919 con le aggressioni compiute ai danni del socialista Bissolati e poi con l’assalto, datato 15 aprile, ai danni dell’“Avanti!”»
. I socialisti italiani erano avversati non in virtù del loro programma sociale, ma perché considerati non-rivoluzionari. Questa critica era stata avanzata anche da Lenin che aveva indicato in D’Annunzio, Mussolini e Marinetti gli unici tre intellettuali che potevano davvero fare la rivoluzione in Italia. 24
Carli, oltreché combattente, era giornalista e scrittore. A Fiume, fece conoscere le sue idee filo-bolsceviche dalle pagine de La testa di ferro, giornale che dirigeva e che prendeva nome dal famoso articolo di D’Annunzio “Cagoia e le teste di ferro”, fortemente critico verso il primo ministro Nitti. Le vicende fiumane sono raccontate da Carli anche nel romanzo Trillirì e nel saggio Con d’Annunzio a Fiume, in cui si legge quanto segue:
Prendendo la Russia come modello tipico di rivoluzione sociale, si vede anzitutto che il bolscevismo è stato un movimento, non tanto grettamente espropriatore, quanto rinnovatore, perché ha voluto ricostituire in base a ideali vasti e profondi l’edificio sociale, assurdamente sbilenco sotto il decrepito regime zarista. Inoltre il bolscevismo russo, animato da un potente soffio di misticismo, non si è mosso con quei criterii di pacifismo codardo, che fanno dei cortei proletarii italiani altrettante processioni d’innocenti agnellini (...). Il popolo russo ha saputo anche difendere la sua rivoluzione, e gli eserciti di Lenin si sono battuti, spesso, vittoriosamente, contro i bianchi paladini della reazione. Assodato poi che i socialisti italiani non credono nella rivoluzione, non la vogliono e non fanno nulla per provocarla, possiamo stabilire in modo definitivo che noi legionarii non avremo mai alcun contatto, e neppure alcun cenno d’approccio, con quella ottusa cocciuta grettissima cretinissima Chiesa che è il Partito Ufficiale Socialista italiano... 25
E dopo avere messo in chiaro chi sono, secondo lui, gli amici e i nemici, Carli enuncia senza troppi giri di parole il suo programma.
il nostro sogno più caro di artisti e di lottatori è sempre stato quello di sollevare la miseria materiale e spirituale delle masse, e se domani avremo modo di sopprimere in loro prima la fame, poi l’ignoranza, potremo dire di aver raggiunto uno degli obiettivi fondamentali di tutta la nostra azione. Noi chiediamo di meglio che chiamare accanto alle élites anche i rappresentanti del «numero» a partecipare alla vita collettiva, a decidere dei propri interessi e del proprio destino. Il soviet (altra parola-spauracchio per i mosci borghesi di tutti gli Stati) è un prodotto così ragionevole e così utile dei nuovi tempi, ed è già così diffuso, sotto la forma sindacale, negli ambienti amministrativi e industriali, che non si capisce perché non debba entrare senz’altro nella vita politica e militare (...). Indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna, al più presto, gettare un ponte fra queste due rive. 26
Allo stesso modo in cui era nata una spontanea collaborazione fra arditi, futuristi e fasci di combattimento (i fascisti di San Sepolcro), Carli premeva per una collaborazione con il proletariato sovietico. Collaborazione che in effetti ci fu e non fu confinata alle belle parole. Proprio in quel periodo, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era infatti sotto attacco da parte di corpi di spedizione inglesi, francesi e giapponesi che combattevano al fianco dei controrivoluzionari “bianchi” e al comando di generali zaristi.
Si narra che una nave carica di armi destinate alle truppe antibolsceviche in Russia, il mercantile Persia, transitò per Fiume. Il 10 ottobre 1919, con un mirabile colpo di mano, un gruppo di legionari al comando del socialista Giuseppe Giulietti si impadronirono del carico e rivendicarono l’azione «in difesa del proletariato russo»
. L’azione riscosse il plauso di D’Annunzio che, in una lettera, così commentò: «La bandiera dei Lavoratori del Mare issata all’albero di maestra, quando la nave Persia stava per entrare nel porto di Fiume con il suo carico sospetto, confermò non soltanto la santità ma l’universalità della nostra causa. La federazione dopo averci arditamente mostrato il suo consenso e dato il suo aiuto, ci fornisce armi per la giustizia, armi per la libertà, togliendole a reazioni oscure contro un altro popolo, non confessate. Teniamo le armi e teniamo la nave. Adopreremo le armi, senza esitazione e senza misura, contro chiunque venga a minacciare la città che abbiamo per sempre liberata… Il mio compito di lavoratore del Carnaro, caro compagno, consiste nel far prevalere e risplendere la bellezza ignuda e forte della conquista da me presentita. Arrivederci, capitano Giulietti. Certo, il buon sale marino preserva la federazione da ogni corrompimento. Siamo tranquilli. E, se tener duro è bene, assaltare è meglio»
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Caro compagno… Proprio così, significativamente, il “lavoratore” D’Annunzio si rivolgeva in quegli anni ad arditi, futuristi e legionari. Dunque, l’idea di fondo era che i proletari non dovevano solo resistere, tenere duro, negoziare, ma passare alla controffensiva e assaltare il sistema monarchico conservatore, per conquistare la libertà e la giustizia. Tutto questo stride fortemente con l’idea che ci siamo fatti di D’Annunzio, di Marinetti, dei futuristi, dei Fasci di combattimento. Vediamo tutto attraverso una lente deformante, perché negli anni seguenti si registrerà una svolta reazionaria del fascismo che lo porterà a rinnegare i fermenti che ne avevano inizialmente favorito la nascita.
Il sodalizio fra i tre movimenti – arditismo, futurismo, fascismo – si spezzò quando i fascisti si mostrarono inclini a difendere gli interessi del capitalismo e ad assumere un atteggiamento conservatore. A questo punto, Carli prese le distanze dai fasci e, insieme ad altri commilitoni, in particolare Argo Secondari, fondò gli Arditi del Popolo, formazione dichiaratamente antifascista che si scontrerà duramente e spesso con successo contro le squadracce. 28 Era l’estate del 1921. A battezzare la nascita di questo corpo paramilitare di reduci, a forte componente anarchica e comunista, fu proprio un memorabile articolo di Carli, “Arditi, non gendarmi!”, pubblicato sul giornale L’Ardito. Di nuovo, l’evento fu accolto positivamente da Gramsci su L’Ordine Nuovo. 29 Ciononostante, la sinistra italiana istituzio-nale esitò a dare il proprio appoggio a questa iniziativa, pur in presenza di alcune vittorie significative che mostravano il carattere non velleitario dell’azione militare.
Leggendaria è rimasta la difesa di Parma. Gli Arditi del popolo, con i loro stendardi (Teschio nero con occhi rossi e pugnale tra i denti), fronteg-giarono e sconfissero i fascisti guidati da Roberto Farinacci e Italo Balbo, costringendo quest’ultimo ad ammettere che Parma «è rimasta quasi impermeabile al fascismo». 30
È passata alla storia anche la battaglia di Sarzana, dove gli Arditi del popolo respinsero un primo assalto delle camicie nere, uccidendo diversi fascisti. Il ritorno in forze di una milizia toscana composta da circa seicen-to squadristi fu però fatale agli arditi, nonostante l’appoggio dei lavoratori e dei carabinieri. I resistenti furono sopraffatti e i capi giustiziati. 31
Con la vittoria del fascismo, favorito dall’immobilismo del governo, dalla complicità della monarchia, dalle esitazioni di socialisti e comunisti, poco inclini a seguire la via militare degli Arditi del popolo, sarà cancellata anche la memoria di questa formazione. Argo Secondari, tenente pluri-decorato degli “Arditi Assaltatori”, fu prima bastonato duramente dai fascisti – che gli causarono danni cerebrali permanenti – e poi rinchiuso in un manicomio per diciotto anni, fino alla morte avvenuta nel 1942. Per ordine della Questura, che temeva disordini a causa dei molti seguaci di Secondari, il funerale si svolse privatamente.
Dal canto loro, i futuristi avevano annunciato ufficialmente l’uscita dal movimento fascista già nel 1920, ma le tensioni erano presenti sin dall’inizio. Facciamo un passo indietro. Subito dopo l’adesione ai Fasci di combattimento, nel 1919, Marinetti e Carli su “Roma futurista” avevano indicato i propri alleati negli anarchici e nei libertari, non nei nazionalisti reazionari e nei clericali. Mussolini non era di questo avviso. Nello stesso periodo, Marinetti aveva raccolto le sue riflessioni politiche nel libro Democrazia futurista, e ancora una volta si era schierato con gli anarchici e contro i reazionari. Il 16 novembre 1919 si era presentato alle elezioni con il “blocco fascista” di Mussolini. Nessun rappresentante era stato eletto e, tra l’altro, Marinetti era finito in carcere insieme a Mussolini, per i disordini causati durante la campagna elettorale. Fu proprio in questo momento che si consumò il divorzio tra futuristi e fascisti. Furono, in particolare, le posizioni futuriste anticlericali, antimonarchiche e favorevoli agli scioperi dei lavoratori che vennero rigettate da Mussolini. Perciò, l’annunciò dell’uscita di Marinetti e Carli dal comitato dei fasci, il 29 maggio del 1920, non era per nulla inaspettato.
Nel 1922, quando Mussolini ottenne l’incarico di formare il nuovo governo, i futuristi gridarono addirittura al tradimento. Quella che doveva essere una rivoluzione socialista, repubblicana e anticlericale si stava trasformando in regime conservatore, con la benedizione del Papa e del Re. Mussolini aveva infatti ottenuto l’incarico anche perché aveva ammorbidito di molto le proprie posizioni, avvicinandosi al Partito Popolare di Don Sturzo e affermando che «l’unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che si irradia dal Vaticano»
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Non stupisce che questo atteggiamento, unitamente alle repressioni squadriste ai danni degli operai, abbia messo in serio imbarazzo Marinetti, nonostante la personale amicizia con Mussolini e nonostante la sua distanza dalle posizioni filosovietiche di Carli (ribadite nel libro Al di là del comunismo, pubblicato il 15 agosto del 1920). Marinetti non era filosovietico perché aborriva la burocrazia statalista, ma era sinceramente dalla parte dei lavoratori e degli anarchici. Spesso i lavoratori erano corsi in soccorso degli artisti futuristi, in occasione delle leggendarie scazzottate con i rampolli della borghesia. Ora, i futuristi dovevano osservare passivamente quegli stessi operai manganellati dalle camicie nere? Sono fatti di cronaca gli interventi di Marinetti a difesa dei ferrovieri in sciopero, in cui arringava le folle dicendo che gli squadristi non avevano il diritto di picchiare lavoratori che viaggiavano per l’Europa e sapevano pilotare quei portenti della meccanica. D’altronde, nel Manifesto del partito politico futurista del 1918, Marinetti aveva promosso il diritto di sciopero, insieme al nazionalismo rivoluzionario, alla lotta contro l’analfabetismo, all’istituzione delle scuole laiche, all’abolizione del Senato, allo svaticanamento e all’anticlericalismo d’azione, al suffragio universale per tutti gli uomini e le donne, al divorzio facile, all’abolizione del matrimonio, al libero amore, alla socializzazione delle terre, al diritto di riunione, di organizzazione e di stampa, all’abolizione della polizia politica, alla giustizia gratuita, alle pensioni operaie, alla riforma radicale della burocrazia, incluso il decentramento amministrativo. Tutto questo ormai strideva con la direzione che stava prendendo il fascismo di governo, che pareva ormai deciso a voler tenere l’Italia nelle paludi feudali del Trono e dell’Altare.
Il 3 luglio del 1923 è il futurista Giuseppe Prezzolini che nell’articolo “Fascismo e futurismo”, pur sottolineando i punti di contatto esistiti in passato tra i due movimenti, dichiara che l’alleanza è finita. «Se il fascismo vuol segnare una traccia in Italia deve espellere ormai tutto ciò che vi rimane di futurista, ossia di indisciplinato e anticlassico. Sarei troppo seccante se ai miei conoscenti del movimento futurista chiedessi un franco giudizio sulle riforme classiciste del ministro Gentile?»
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Il futurismo è ribellione, non può essere una forza d’ordine. Il futurismo guarda avanti, alla tecnica, al progresso, al futuro. Il fascismo è invece ormai saturo di forze conservatrici che guardano indietro, guardano ai fasti dell’Impero romano, guardano alla Monarchia sabauda e al magistero della Chiesa cattolica.
Il regime, una volta consolidato il potere, riesce però a fare ritornare nella propria orbita i dissidenti, elargendo onorificenze e facendo proprie quelle gesta eroiche prima avversate o perlomeno non adeguatamente sostenute (come l’Impresa di Fiume o le azioni degli Arditi). Con queste operazioni, il fascismo si distingue nettamente da altri totalitarismi, che hanno proceduto senza remore ad epurazioni violente (si pensi solo alla fine dello stato maggiore delle Sezioni d’Assalto di Ernst Röhm nella “notte dei lunghi coltelli”).
Nel 1924 vengono infatti organizzate le “Onoranze a Marinetti” e molti futuristi stringono la mano tesa di Mussolini, cercando vanamente di legittimare il futurismo come unica arte di Stato. Marinetti venne perfino nominato Accademico d’Italia (proprio lui che era contro le accademie e i musei!) e lo stesso Carli si riavvicina al fascismo, diventando direttore della rivista L’Impero.
In realtà, con questa operazione, è il regime che ottiene la quasi totale depoliticizzazione e neutralizzazione del movimento futurista, riconducendolo nell’ambito ristretto dell’arte e della cultura. Dunque, è paradossalmente il futurismo a-politico (o a-ideologico) che può essere assimilato al fascismo realizzato, non certo quello politico e battagliero delle origini, che era socialista e rivoluzionario.
I futuristi diventano così una sorta di ala sinistra del fascismo. Si limitano, di tanto in tanto, a fare sentire la propria voce critica sulle colonne della rivista Artecrazia. In particolare, dopo l’emanazione delle leggi razziali, nel 1938, i futuristi manifesteranno il proprio dissenso con un paio di articoli che si ritengono ispirati da Marinetti. Lo stesso Marinetti si rifiutò di firmare le leggi razziali. 33
Considerando questi aspetti, l’adesione finale di Marinetti alla Repubblica Sociale di Salò va letta come un ritorno alle originarie idee repubblicane e socialiste, più che come la cieca fedeltà ad un regime dispotico in agonia. Questa fu anche la tragica sorte di Nicola Bombacci, segretario del Partito Socialista Italiano nel 1919 e fondatore del Partito Comunista d’Italia nel 1921, critico o marginale rispetto al regime fino alla fondazione della Repubblica Sociale. Ad essa aderì entusiasticamente proprio per realizzare il processo di socializzazione dell’economia promesso dal Duce, diventandone consigliere personale. Con il risultato che fu fucilato insieme a Mussolini a Dongo e, con lui, appeso per i piedi in piazzale Loreto. Un percorso esattamente contrario a quello di tanti opportunisti.
Certamente, non si può negare che lo spirito guerrafondaio e patriottico di Marinetti fu perfettamente in sintonia col fascismo. Ma dobbiamo anche ricordare che la Prima guerra mondiale è stata la nostra quarta guerra d’indipendenza, volta a liberare Trento e Trieste dal gioco asburgico. Non bisogna dimenticare che il sistema feudale è stato spezzato tramite sanguinose guerre e rivoluzioni, non con balli di gala. Oggi diamo per scontate le libertà civili e la democrazia, ma se il mondo fosse rimasto pacifico, se non ci fossero stati i “guerrafondai” e i rivoluzionari come i Cromwell e i Washington, i Napoleone e i Garibaldi, i Lenin e i Mao, avremmo ancora le strutture feudali, lo Stato teocratico e la servitù della gleba. Bisogna avere il senso del contesto storico. Proclamare che la guerra è la «sola igiene del mondo», nel 1909, aveva un significato ben diverso da quello che un simile proclama potrebbe assumere oggi, in un mondo ostaggio delle armi di distruzione di massa.
Infine, se questi argomenti non sembrano abbastanza convincenti, si deve anche considerare che Marinetti non esaurisce il futurismo italiano e il futurismo italiano non esaurisce il futurismo mondiale. Tutti i fatti a nostra conoscenza mostrano che, nella misura in cui la destra è conservazione e la sinistra progresso, il futurismo fu un movimento con il baricentro decisamente spostato a sinistra.
Per la tecnica, non anti-natura
Un altro aspetto del futurismo che – per quanto ne sappiamo – non è ancora stato sottolineato adeguatamente è che la tecnolatria futurista non degenera in un atteggiamento di ostilità verso la natura. La contrapposizione tra tecnologia e natura è la strategia comunicativa preferita dai sostenitori della tecnoetica epimeteica, bioluddista, passatista. Che amando la tecnica si debba odiare la natura, oppure, che amando la natura si debba odiare la tecnica, è spesso trattato dai passatisti come un assioma, una verità autoe-vidente. In realtà, non c’è alcuna correlazione logica tra i due atteggiamenti. Si possono amare esteticamente le industrie, le macchine, i laboratori scientifici, gli aeroplani, le grandi città, e allo stesso tempo apprezzare la bellezza delle montagne, dei mari, dei fiumi, dei fiori, dei boschi. Per comprendere che il futurismo non prevede un atteggiamento ostile verso la natura è sufficiente sfogliare un’antologia poetica. Se ci concentriamo sui contenuti e non sullo stile, scopriamo che una parte consistente della poesia futurista mostra un atteggiamento benevolo nei confronti degli elementi naturali del paesaggio.
Nell’antologia I Futuristi 34 sono riportate ben 88 poesie scritte da Libero Altomare, Antonio Bruno, Paolo Buzzi, Francesco Cangiullo, Sebastiano Carta, Enrico Cavacchioli, Marco Carli, Bruno Corra, Auro d’Alba, Luciano Folgore, Giovanni Gerbino, Corrado Govoni, Gian Pietro Lucini, Filippo Tommaso Marinetti, Armando Mazza, Emilio Notte, Aldo Palazzeschi, Ardengo Soffici, e Geppo Tedeschi. Una parte delle poesie è centrata sull’esaltazione della macchina o dell’uomo moltiplicato. Tra i poemi più centrati sulle tematiche tecnico–industriali tipiche del movimento, si devono ricordare: “Scalata” di Libero Altomare, “Il canto di Mannheim” di Paolo Buzzi; “Battute d’automobile” di Auro d’Alba, “Al Carbone” di Luciano Folgore, “A mon Pégase” (All’automobile da corsa) e “Bombardamento” di Filippo Tommaso Marinetti, “Aeroplano” di Ardengo Soffici. Fin qui nessuna sorpresa.
Stupisce invece la quantità di versi dedicati all’amore, alla natura e persino alla vita contadina. Sono versi liberi o parole in libertà, e perciò stilisticamente “futuristi”, ma sul piano contenutistico non si nota una fedele adesione ai proclami dei manifesti. I versi riescono nella difficile impresa di coniugare l’amore per il progresso tecnico con quello per la natura incontaminata.
Prendiamo in esame l’opera di Geppo Tedeschi. Di questo autore colpiscono innanzitutto i titoli delle raccolte: Ruralismo calabrese (1942) e Rosolacci tra il grano (1943). La campagna e non la città è dunque il principale punto di riferimento tematico. Da un lato, Tedeschi si pone nel solco dell’esaltazione della tecnica, come si può notare nei seguenti versi, tratti da “Strapiombi d’acqua ricciuta” . 35
Urlarono le mucche,
da un dolce pendio
aspromontano:
– Siamo stufi, strastufi
di serpeggianti
sentieri,
con monumenti d’alberi
e pietrame gigante
di frescure.
Anche quassù vogliamo
strade e strade asfaltate!!
Dall’altro, propone riferimenti al paesaggio naturale, alla calma, alla contemplazione che sembrano quasi stridere con l’esaltazione del dinamismo urbano propagandato dai manifesti futuristi. Si veda, per esempio, la poesia “Invito”. 36
Frangi, per oggi,
la marcia,
canuto pellegrino
e siedi,
con zucca e bastone,
sotto quest’ombra
garrula
di pino.
Se ài sete
fresca e tersa
è la fontana
e se vuoi musica,
per dormire,
laggiù c’è la chitarra
della rana.
Tedeschi sorvola l’Aspromonte in aereo, l’idolo meccanico del futurismo, e scrive aeropoemi. Però, si concede anche la contemplazione di un pino, di una fontana, del canto di una rana, nonché qualche violazione dei non-canoni poetici futuristi. Non si doveva distruggere la sintassi, abolire l’aggettivo, usare il verbo all’infinito? Qui, oltre che una struttura quasi tradizionale, ci sono persino le rime!
Il dinamismo e i temi prometeici si sposano a temi naturalistici anche in Enrico Cavacchioli. Si veda, per esempio, “La città addormentata”. Il ritmo lentissimo serve a criticare la calma e noiosa vita borghese, ma non deve sfuggire all’attenzione il fatto che l’unica nota positiva della città è individuata in un oggetto naturale («…per fortuna, un pesco distende a gran pena un braccio tutto fiorito della sua gloria rossa»).
I fiori sembrano essere perfettamente compatibili con le macchine e le ciminiere industriali, a giudicare da quanto cantano Gian Pietro Lucini: «Per chi volli raccogliere questo mazzo di fiori selvaggi; stringerli in fa-scio nel gambo spinoso ed acerbo?»; 37 Emilio Notte: «Una gialla mimosa dondola al vento. Sul ramo più alto un passero canta. Il contadino si riposa dopo aver mangiato il suo pezzo di pane»; e persino il giovane Marinetti: «…nei favolosi giardini ove s’esilia l’anima mia chimerici peschi foggia-rono la tua carne flessuosa, con la neve odorante dei loro fiori che le sono-re dita del vento plasmavano!…». 38 Corrado Govoni scrive addirittura un poema interamente dedicato ai fiori, “Dove stanno bene i fiori”. Invece di parlare di torpediniere ed aeroplani, parla di ciclami, ortensie, margherite, viole, malva, olendri, rose, azalee… Talvolta, finanche il passato viene guardato con occhio benevolo, come nella nostalgica “Sérénade d’autrefois” di Antonio Bruno: «Ma i ricordi talvolta; le reliquie dell’amore strozzato, con fruscii di carezze che conosco io solo destano il passato, e l’anima sogna». 39
Queste citazioni non debbono, comunque, essere sovrastimate e interpretate come un’incrinatura del carattere tecnofilo della cultura futurista. Oltre a Marinetti, poeta, scrittore e ideologo, i personaggi più rappresentativi del movimento non sono scrittori, ma artisti di altro genere. Boccioni era scultore e pittore, Balla pittore, Sant’Elia architetto, Russolo pittore musicista e drammaturgo, Balilla Pratella musicista, Depero pittore e drammaturgo, Severini pittore, Carrà pittore. In tutti questi artisti la tecno-filia è fuori discussione. La situazione è leggermente diversa in campo letterario.
Aldo Palazzeschi aderì al Futurismo nel 1909, ma prese le distanze dal movimento cinque anni dopo; Ardengo Soffici è uno dei fondatori della rivista futurista Lacerba, insieme a Papini, e fu anche un attivo collaboratore della Voce, però dagli anni venti in poi si impegnò per un recupero della tradizione classica e per un “ritorno all’ordine” in campo culturale; Corrado Govoni aderì subito al Futurismo, ma come molti altri se ne staccò dopo la Prima guerra mondiale; Papini, infine, diviso tra letteratura e filosofia, fu un entusiasta sostenitore del futurismo in campo artistico e del pragmatismo in campo filosofico, ma poi incontrò Cristo e si convertì al cattolicesimo militante. Infine, Lucini è il meno futurista tra i futuristi. Autore dell’opera Il verso libero (1906–1908) e difensore dell’innovazione nella poesia e nell’arte già prima della nascita del Futurismo, non volle mai aderire ufficialmente al movimento, anche se Marinetti non nascondeva l’ammirazione che nutriva per lui e una collaborazione ha avuto luogo per un certo tempo. Nel 1910, Lucini arrivò però a pubblicare una poesia di stampo chiaramente anti–futurista: “Protesta contro le macchine che corrono e che volano”. 41 E il 10 aprile 1913, dalle pagine de La Voce, prese decisamente le distanze da Marinetti, scrivendo “Come ho sorpassato il Futurismo”. Lucini rappresenta solo il caso più eclatante di una schiera di poeti che si avvicina al futurismo attratta più dagli aspetti stilistici che da quelli contenutistici, artisti che non sono nati e morti futuristi.
Il rapporto con la scienza
Per decidere le affinità tra futurismo storico e transumanesimo odierno, è importante analizzare anche il rapporto con la scienza. Qui, non possiamo esimerci dal rilevare che l’atteggiamento di Marinetti fu parzialmente polemico nei confronti della scienza, in contrasto con quello che è invece l’atteggiamento dei transumanisti.
La scienza, intesa come ricerca e scoperta delle leggi dell’universo attraverso il metodo di analisi empirico e razionale, trova ben poco spazio nella narrativa e nella poesia futurista. Anzi Marinetti, nei manifesti, pone quasi in contrapposizione arte e scienza e rivendica l’importanza della prima. Così si esprime nel Manifesto tecnico della letteratura futurista: «[della materia] si deve afferrare l’essenza a colpi di intuizione, la qual cosa non potranno mai fare i fisici né i chimici» (punto 11). È chiaramente l’espressione di un dubbio di insufficienza cognitiva della scienza. Considerato che gli scientisti arrivano a sostenere che la scienza è l’unica forma autentica di sapere e svalutano, di conseguenza, tutti i contributi artistici come forme di autostimolazione o manifestazioni egotiche, non stupisce che gli artisti mostrino anch’essi una reazione critica. I futuristi sanno però che la tecnica si nutre di scienza e non proclamano quindi l’inutilità o la dannosità della scienza accademica – come arrivano a fare altre correnti culturali post-positivistiche – ma semplicemente la sua insufficienza. Il che non significa altro che affermare l’importanza dell’arte, anche in funzione di indirizzo della tecnologia.
Per capire questi accenni polemici, ci si deve calare nel dibattito del tempo. Nel 1911, ossia un anno prima della pubblicazione del Manifesto tecnico della letteratura futurista, scoppiò in Italia una durissima polemica tra il matematico ed epistemologo Federigo Enriques e il filosofo Benedetto Croce, sulla collocazione della scienza nell’orizzonte culturale. Enriques, che stava seguendo le straordinarie conquiste nella meccanica quantistica e nella teoria della relatività, denunciava l’arretratezza di certa cultura italiana, ancora legata all’idealismo e incapace di vedere le dimensioni filosofiche delle scoperte scientifiche. Erano piuttosto i matematici italiani a dare contributi fondamentali, aprendo nuovi orizzonti cognitivi. Croce reagì in modo piuttosto arrogante, dicendo che «solo le menti universali o profonde potevano davvero accedere alla cultura, ovvero alla filosofia e alla storia… agli ingegni minuti si poteva concedere di interessarsi all’aritmetica e alla botanica»
. Dunque, Croce si vedeva come una «mente universale e profonda», nonostante fosse ignorante nelle scienze, mentre Enriques, Max Planck ed Einstein erano «ingegni minuti». Croce era anche convinto che solo la storia e la filosofia fossero vera cultura e che la vera cultura fosse il regno della verità. Non c’era verità nelle scien-ze naturali, perché erano solo strumenti economici, volti a sostenere l’industria e la tecnica, finalizzati a produrre oggetti utili. Nel 1952, Croce ribadì con forza questo concetto, proclamando che «le scienze naturali e le matematiche hanno ceduto di buona grazia alla filosofia il privilegio della verità»
.
Croce vinse la sua battaglia culturale. E non poteva essere altrimenti, visto che le classi dirigenti italiane si formavano prevalentemente attraverso gli studi classici e umanistici. Che la classe dirigente dovesse avere una formazione classica e non scientifica fu addirittura stabilito per legge dalla riforma Gentile. Ci porterebbe ora fuori strada cercare di stabilire se questa scelta ideologica abbia avuto poi ripercussioni sulla sconfitta italiana nella Seconda guerra mondiale – che, più di ogni altra, fu guerra di tecnologie e di scienza, culminando con le esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Sta di fatto che una potenza industriale, che al termine della Prima guerra mondiale aveva una produzione sul livello delle altre potenze europee, mandò in giro per il mondo soldati con scarpe di cartone, senza armi adeguate (un fucile progettato nel 1881!) e quasi senza supporto logistico. Evidentemente, per certi dirigenti, le guerre si facevano nel mondo platonico delle idee e non nel mondo della materia. Si facevano solo col cuore e con gli ideali, e non anche con carri armati, aerei da combattimento e navi da guerra all’altezza della situazione.
In ogni caso, i futuristi, avendo deciso di cortocircuitare poesia e tecnologia, si trovarono in una situazione estremamente scomoda durante la polemica Croce-Enriques, che aveva scaldato gli animi mettendo su fronti opposti gli esponenti della cultura tecnico-scientifica e umanistico-letteraria. Non è difficile immaginare che, in questo muro contro muro, più di un intellettuale abbia chiesto ai futuristi: voi da che parte state? La risposta di Marinetti è una risposta di orgoglio e di coerenza. Resta dalla parte della tecnica, ma proclama che la tecnica non è solo un sottoprodotto della scienza. È anche un prodotto dell’arte. In fondo, la parola “arte” è stata per millenni sinonimo di “tecnica”. Fu o non fu Leonardo da Vinci il primo futurista? L’arte non è solo rappresentazione della materia, ma anche manipolazione della materia. È un modo per ricostruire l’universo. Si pensi all’architettura che rimodella le città o al design industriale che contribuisce alla nascita di treni, aerei e automobili. Questi oggetti non sono solo un fatto tecnico-scientifico, sono anche un prodotto artistico. Ecco allora che i futuristi, essendo orgogliosamente artisti e coerentemente tecnofili, cercano di non farsi risucchiare nel discorso crociano o in quello della reazione degli scienziati e dei tecnici. Con un solo proclama, rifiutano tanto l’idea crociana di una scienza ridotta ad attività pratica e dunque identificata con la tecnica, quando l’idea che l’arte e la letteratura non abbiano nulla a che fare con la tecnica. In sintesi dicono: caro Croce sei portatore di una cultura storicistica paludata, cari scienziati voi avete bisogno di noi artisti per cambiare il mondo.
Per andare oltre la parentesi
Voglio dedicare questa nota conclusiva a coloro che si ostinano a ridurre il futurismo ad una corrente artistica. A mio avviso questo è un atteggiamento scorretto sul piano descrittivo e inopportuno sul piano prescrittivo, a prescindere dal fatto che si consideri questa corrente artistica morta e sepolta o ancora vitale. Questa riduzione è esattamente ciò che ha voluto e ottenuto il regime fascista.
Dopo il nostro excursus, dovrebbe essere abbastanza chiaro che, nel futurismo, i concetti di arte e vita sono inestricabilmente connessi, se non addirittura coincidenti. L’arte non è intesa come strumento della politica, o viceversa. E lo stesso si può dire del rapporto tra letteratura e tecnologia. Piuttosto, i diversi aspetti della realtà sono una cosa sola nello spirito futurista. Non sbaglia Luigi Tallarico, uno dei maggiori esperti della materia, quando dice che «in quanto attitudine intellettuale, il futurismo ha saputo creare una poetica basata sulla vita, di tali possibilità creative da modificare radicalmente gli strumenti linguistici, ormai esangui, di una letteratura che non teneva il passo con la nuova civiltà e tali da non esaurirsi nell’estetica, ma diventare “rivoluzione, improvvisazione, slancio, entusiasmo, record, elasticità, eleganza, generosità, straripamento di bontà, smarrimento nell’assoluto, lotta contro ogni catena”»
.
Questo è il punto: il futurismo comincia dall’estetica, ma non si esaurisce nell’estetica. Non si tratta solo di capire che il futurismo – lo stile letterario, lo stile di vita, i valori, le idee, le opere – si rapporta geneticamente ad un certo contesto sociale e politico. Si tratta di capire che il futurismo è stato (e vuole ancora essere) un movimento “totale”, volto a rivoluzionare tutta la realtà, incluso il contesto sociale e politico che l’ha generato. Se così stanno le cose, è assurdo voler contrapporre un futurismo artistico ad un futurismo politico, o un futurismo letterario ad un futurismo scientifico. Il futurismo è un movimento totale. O non è.
Il futurismo si è dato come obiettivo la scalata alle stelle, la ricostruzione dell’universo, la creazione dell’uomo moltiplicato, la fusione di carne e metallo. Ora, è evidente che questa impresa, per realizzarsi, ha bisogno non solo di artisti, ma di tutto un popolo. Servono scrittori capaci di immaginare il futuro, giornalisti capaci di raccontare il presente, storici capaci di ricostruire il passato, scienziati capaci di spiegare la natura, sociologi capaci di capire l’uomo, architetti e tecnici capaci di trasformare la materia, medici e bioingegneri capaci di fondere l’organico e l’inorganico, politici capaci di guidare un popolo, filosofi capaci di indicare il senso di marcia, cittadini capaci di accettare la sfida della trasformazione, combat-tenti capaci di difendere le conquiste, poeti e musicisti capaci di cantare le gesta dei protagonisti di questa grande avventura…
Gli artisti e i letterati non debbono temere la tendenza di questo movimento a debordare, a trascendere la dimensione estetica. Mezzo secolo orsono Charles P. Snow dava alle stampe il breve saggio Le due culture, 42 destinato ad accendere un dibattito che non si è più spento. Denunciava l’atteggiamento luddista degli scrittori, dei poeti, dei critici letterari, ormai incapaci di comprendere una realtà industriale in rapida trasformazione, perché refrattari e ostili alla scienza e alla tecnica. Più recentemente, Piergiorgio Odifreddi ha ribadito il concetto con queste parole: «Ci si può fidare della letteratura, come specchio che riflette la visione del mondo che caratterizza la propria epoca? Chi pensa… che la letteratura sia effettivamente un mezzo per conoscere l’uomo e la sua storia, e non soltanto un futile passatempo, deve anche aspettarsi che la scienza e la tecnologia rivestano per gli scrittori del mondo contemporaneo un ruolo analogo a quello che la mitologia e la religione giocavano per i cantori del mondo antico e medievale. E, invece, la maggior parte della letteratura contemporanea è non solo ascientifica e atecnologica, ma addirittura antiscientifica e antitecnologica».
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Questa critica è senz’altro valida per la gran parte della letteratura del mondo occidentale, ma non tocca i letterati futuristi. Se c’è un punto d’onore della letteratura futurista è proprio questo: sono riusciti a fondere le due culture, a fare terza cultura. Se c’è un’iniziativa di cui possono andare fieri gli artisti futuristi è di avere entusiasticamente riempito le loro creazioni – la poesia, la pittura, il teatro, i romanzi, la musica – di gioiosi aeroplani, treni, automobili, macchine industriali e automi.
Vogliamo buttare a mare la più grande acquisizione di questo movimento, appiattendoci sulla tendenza dominante (leggi: luddista) dell’arte contemporanea? L’originalità, la forza, l’unicità del futurismo è l’avere guardato oltre l’arte, con sensibilità artistica. Nessun altro ha saputo fare altrettanto. Negli ultimi duecento anni si è verificato su questo pianeta il più grande mutamento sociale e culturale dai tempi del neolitico: la rivoluzione industriale. Ebbene, i letterati hanno in genere guardato altrove, o hanno dedicato all’industrializzazione appena un fugace e sdegnato sguardo. I futuristi invece hanno guardato dalla parte giusta, hanno colto il momento epocale.
C’è la tendenza a trattare il futurismo come una parentesi che si apre e si chiude nella storia culturale italiana, senza lasciare un segno decisivo, quasi che si tratti, se non di un errore, di un’eccezione, di un fatto unico e irripetibile. In un certo senso è vero che il futurismo presenta caratteristiche uniche. Accostando le opere letterarie dei futuristi a quelle della tradizione precedente e successiva non si può non notare un certo stridore, una certa distanza. Ma se i futuristi hanno saputo varcare i confini nazionali come poche altre correnti di pensiero italiane è perché hanno saputo interpretare lo spirito del loro tempo meglio di tanti altri artisti. Hanno parlato di ciò che accadeva nel mondo e non solo in qualche angolo di provincia italica. Proprio l’universalità del discorso futurista invita a riaprire questa parentesi, troppo frettolosamente chiusa dagli storici.
La rivoluzione industriale non è conclusa, è entrata in una terza fase, una fase decisiva in cui l’uomo è entrato in possesso degli strumenti tecnici che gli permettono di cambiare se stesso. 44 Perciò, il futurismo non ha ancora esaurito il suo ruolo. Se guardiamo agli odierni sviluppi della scienza e della tecnica notiamo che ad essere fuori fase non sono tanto i futuristi, quanto i loro avversari “passatisti”, i nostalgici del passato. Nella misura in cui la letteratura è intesa come cultura che si rapporta alla realtà sociale, quella futurista ha un ruolo fondamentale. I futuristi hanno compreso la direzione della storia, hanno incarnato lo spirito del mondo, facendolo entrare di prepotenza nella propria letteratura e, di conseguenza, nella letteratura italiana e mondiale. In questo senso affermo che erano piuttosto fuori fase gli scrittori incapaci di riconoscere quel trend e di stabilire un ponte tra letteratura e realtà sociale. Se una civiltà è da considerarsi malata quando le strutture sociali e culturali marciano separate o addirittura in opposizione, allora il futurismo è senz’altro da vedere come una medicina per una società malata.
Bibliografia
- Campa R., Etica della scienza pura, Sestante, 2007.
- Campa R., Mutare o perire. La sfida del transumanesimo, Sestante, 2010.
Note
- 1 E. Gentile, “La nostra sfida alle stelle”. Futuristi in politica, Laterza, Bari 2009.
- 2 Ibid.
- 3 Ibid.
- 4 Laterza
- 5 Uno degli esponenti più attivi di questo movimento è senza dubbio il poeta Roberto Guerra, autore del saggio Marinetti e il Duemila, già pubblicato da Schifanoia Editore (Ferrara 2000) e riproposto integralmente in questo volume.
- 6 D. Messina, "Futurismo non è fascismo", Corriere della sera, 6 aprile 2009.
- 7 Pochi però sanno che Le Figaro ha soltanto pubblicato la prima versione in francese del manifesto. Esso era già stato pubblicato in italiano il 5 febbraio 1909 su La Gazzetta dell’Emilia. Molte versioni su carta sono disponibili di questo e di altri manifesti. Ci limitiamo a segnalare il volumetto a cura di G. Davico Bonino, Manifesti futuristi, Rizzoli, Milano 2009. Online: www.irre.toscana
- 8 Cfr. R. Campa, Etica della scienza pura. Un percorso storico e critico, Sestante Edizioni, Bergamo 2007: passim.
- 9 F. Azari, Vita simultanea futurista (Manifesto futurista), Direzione del Movimento Futurista, Roma 1927. Online: www.paginadelleidee.net
- 10 Cfr. Salinari C. e Ricci C., Storia della letteratura italiana, 4 volumi, Laterza, Roma–Bari 1995: 3381.
- 11 Da Il Codice di Perelà, Edizioni futuriste di “Poesia”, 1911.
- 12 Undici è il numero preferito di Marinetti. Undici sono i punti programmatici del primo manifesto. Undici è la data messa in calce a quasi tutti i manifesti futuristi.
- 13 Nell’introduzione alla ristampa del romanzo per i tipi della Mondadori (2003), Luigi Ballerini nota che la mescolanza di organico e inorganico anticipa le saghe fantascientifiche di Metal Hurlant o di George Lucas, l’autore di Guerre Stellari.
- 14 L. Trotsky, Letteratura, arte, libertà, Swarz, Milano, 1958, p. 23. Vedi anche R. Campa, “L’utopia di Trotsky: un socialismo dal volto postumano”, Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano, vol. 1, Sestante Edizioni, Bergamo 2008, in particolare le pp. 60-63. Online
- 15 Va tra l’altro sottolineato che anche gran parte del movimento fascista mostrò ammirazione per la rivoluzione bolscevica e, almeno inizialmente, la vide come un esempio da seguire. Il 16 novembre 1922, con un intervento alla Camera di Mussolini presidente del Consiglio, l’Italia fu il primo dei paesi occidentali a dichiararsi disponibile al riconoscimento internazionale dell'Unione Sovietica. Si veda a proposito L. Lanna e F. Rossi, Fascisti immaginari, Vallecchi, 2003. Un frammento significativo è disponibile online all’indirizzo: beppeniccolai.org
- 16 www.generation-online.org
- 17 La Carta del Carnaro, dettata da Alceste De Ambris e curata nella forma da Gabriele d’Annunzio, fu promulgata l’8 settembre 1920. È consultabile online al seguente indirizzo: http://cronologia.leonardo.it/storia/a1920g.htm
- 18 M. Somenzi, Il ballo di San Vito. Primo quaderno della Yoga. Collezione diretta da Mino Somenzi. Città di Vita, Giugno 1920.
- 19 http://www.reakt.org/fiume/yoga.html
- 20 Cfr. G. Berghaus, Futurism and Politics: Between Anarchist Rebellion and Fascist Reaction, 1909-1944, Oxford, Berghahn Books, 1995; pp. 141-143. Dello stesso autore segnaliamo: International Futurism in Arts and Literature (De Gruyter, 2000).
- 21 Provvedimenti per la difesa della razza italiana DECRETO-LEGGE 17 novembre 1938-XVII, n.1728. Art. 14. Il Ministro per l'interno, sulla documentata istanza degli interessati, può, caso per caso, dichiarare non applicabili le disposizioni dell'art 10, nonché dell'art. 13, lett. h): a) ai componenti le famiglie dei caduti nelle guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola e dei caduti per la causa fascista; b) a coloro che si trovino in una delle seguenti condizioni: 1. mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore nelle guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola; 2. combattenti nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola che abbiano conseguito almeno la croce al merito di guerra; 3. mutilati, invalidi, feriti della causa fascista; 4. iscritti al Partito Nazionale Fascista negli anni 1919-20-21-22 e nel secondo semestre del 1924; 5. legionari fiumani. Cfr. anche “Impresa di Fiume” in Wikipedia
- 22 Massimiliano Tenconi, Da soldati a arditi del popolo contro gli sgherri fascisti, in: http://www.storiain.net .
- 23 Benito Mussolini, “Programma di San Sepolcro. Fondazione dei Fasci di Combattimento”, Il Popolo d’Italia, 24 marzo 1919. Disponibile online in Wikisource
- 24 Crf. R. Campa, “L’utopia di Trotsky: un socialismo dal volto postumano”, in Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano, vol. 1, Sestante, 2008 Bergamo. Una rilettura della figura di Lenin, costruita sull’ipotesi di una spontanea sinto-nia tra comunismo e nazifascismo, è stata proposta da Luciano Pellicani nel suo ultimo libro: Lenin e Hitler. I due volti del totalitarismo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009.
- 25 M. Carli, Con D’Annunzio a Fiume, Facchi Editore, Milano 1920: 106-107.
- 26 Ibid. 109-110.
- 27 Cfr. R. G. Caldini, “Tributo a Giuseppe Giulietti”, Il Fondo Magazine: www.mirorenzaglia.org
- 28 Si tratta di una storia ancora poco conosciuta, ma non mancano le monografie sull’argomento: L. Balsamini, Gli Arditi del popolo: dalla guerra alla difesa del popolo contro le violenze fasciste, Galenzano Editore, 2002; E. Francescangeli, Arditi del popolo, Odradreck, Roma 2000; M. Rossi, Arditi non gendarmi!, Bfs Edizioni, Pisa 1997.
- 29 www.geocities.com
- 30 I. Balbo, Diario, Milano 1932.
- 31 Cfr. C. Costantini, “I fatti di Sarzana nelle relazioni della polizia”, in Movimento operaio e socialista, n. 1, 1962. Online: www.centroliguredistoriasociale.it . Vedi anche: “Fatti di Sarzana”, Wikipedia
- 32 Citato in R. Paternoster, “Mussolini e il Papa: la Chiesa sotto il fascismo”: www.storiain.net
- 33 Cfr. N. Figlioli, “Il futurismo in Sicilia”, Ateneonline , www.ateneoonline-aol.it
- 34 F. Grisi (a cura di), I futuristi, Newton, Roma 1990.
- 35 Ibid.: p. 384.
- 36 Ibid.: p. 388.
- 37 Ibid.: p. 310.
- 38 Ibid.: p. 343.
- 39 Ibid.: p. 314.
- 40 Ibid.: p. 243.
- 41 Risalente al 1910, la poesia è stata “riesumata” da Mario Verdone in Palatino, n.3, 1968.
- 42 C. P. Snow, Le due culture, Marsilio Editore, Torino 2005. La versione originale in inglese risale al 1959, mentre una ristampa ampliata è apparsa nel 1963.
- 43 P. Odifreddi, “Quei romanzi pieni di scienza”, la Repubblica, 29 dicembre 2005.
- 44 Cfr. R. Campa, “Considerazioni sulla terza rivoluzione industriale”, Il Pensiero Economico Moderno, Anno XXVII luglio-settembre N. 3, Pisa 2007.